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Napolitano scopre le intercettazioni e avverte: non ci sto

RomaDritto in piedi sulla jeep scoperta, la faccia al sole, il braccio che saluta i reparti schierati nella caserma di Coppito, per la festa della Guardia di Finanza. «Sono «sereno», dice Giorgio Napolitano, ma in realtà è furioso. Gli attacchi continuano, le carte escono e nemmeno le parole di Bersani e Alfano, che chiedono di sospendere «l’offensiva mediatica contro il Quirinale», sono riuscite finora a spegnere le fiamme. Così, convinto di essere sotto tiro, o addirittura sotto ricatto di una parte della magistratura, il capo dello Stato esce dalla trincea. «La campagna di insinuazioni e sospetti è costruita sul nulla. Il nostro comportamento è stato assolutamente corretto, i cittadini stiano tranquilli, io continuerò a favorire la ricerca della verità». Il resto è solo fango, cioè brogliacci, pettegolezzi, telefonate intercettate. Il Cav aveva ragione: «La questione si doveva risolvere tanti anni fa».
A Napolitano il sistema del «verbale selvaggio» non è mai piaciuto e i «magistrati protagonisti» li bacchetta dall’inizio del settennato. Stavolta che nel tritacarne c’è finito lui, non cambia idea. Cambia un po’ i toni, quando ricorda come il caso-Mancino gli sia finito di traverso. «Si sono riempite pagine di alcuni quotidiani con le conversazioni telefoniche intercettate sulle indagini giudiziarie in corso sugli anni delle più sanguinose stragi di mafia, 1992-1993, e se ne sono date interpretazioni arbitrarie e tendenziose, talvolta persino versioni manipolate». Non resta che regolare le intercettazioni. «È una decisione - spiega - che spetta al Parlamento. Per la verità, visto che è passato molto tempo, allora vuol dire che meritava già da parecchio di essere affrontata e risolta con un’intesa la più larga».
Nel frattempo la fuga delle cartuccelle prosegue. «Ma tutti coloro che hanno una seria conoscenza del diritto e delle leggi - sostiene il capo dello Stato - hanno ribadito l’assoluta correttezza del comportamento della presidenza della Repubblica, ispirata soltanto a favorire la causa dell’accertamento della verità su quegli anni». In sintesi, la linea di difesa è questa: è normale che Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico abbia rapporti e parli al telefono con ex vicepresidenti del Csm come Nicola Mancino, ed è normale pure, anzi «è doveroso» che il capo dello Stato inviti i vertici della magistratura a verificare la possibilità di coordinare le varie inchieste.
Nessuna pressione. «Ho reagito alla campagna contro me e i miei collaboratori con serenità e con la massima trasparenza - si sfoga Napolitano - rendendo nota una lettera riservata al procuratore generale della corte di Cassazione». E nessun pentimento. Lo rifarebbe, forse lo rifarà presto: «Continuerò. Perché è mio dovere e mia prerogativa, ad operare affinché l’azione della magistratura vada avanti nel modo più corretto e più efficace, anche attraverso i necessari coordinamenti». E non si pensi che l’assedio lo abbia indebolito o condizionato: «I cittadini stiano tranquilli, terrò fede ai miei doveri costituzionali».
Il messaggio arriva pure a Palermo, dove l’infuocata assemblea della procura dura tre ore. «Massimo rispetto per il presidente - dichiara alla fine il procuratore aggiunto Antonio Ingroia - la ricerca della verità viene condotta in perfetto coordinamento tra gli uffici interessati». Attorno al capo dello Stato si rafforza il cordone sanitario istituzionale. Per Gianfranco Fini il Colle «deve essere salvaguardato da irresponsabili delegittimazioni». Secondo Pier Ferdinando Casini «Napolitano ha adempiuto con correttezza al suo ruolo doppio di presidente della Repubblica e del Csm». E Fabrizio Cicchitto vede «nell’attacco a Napolitano un tentativo di destabilizzare il sistema». Antonio Di Pietro insiste: «Tutti vogliamo rispettarlo, ma nessuno, nemmeno lui è al di sopra della legge.

Un suo collaboratore ha interferito in un’indagine penale in corso».

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