Nasce il «nuovo» Pd e già sembra l’Ulivo: porte aperte a tutti

RomaA metà del discorso della corona, mentre ancora Pierluigi Bersani è intento a spiegare le sue ricette anticrisi e le sue critiche alle «analisi poco realistiche» del governo, un suo autorevole supporter nel Pd borbotta: «Abbiamo un bravissimo responsabile economico del partito. Ma quando parla il segretario?».
Se anche Bersani sentisse il commento impaziente, però, non si scomporrebbe: l’economia resta la sua passione e il suo cavallo di battaglia, e nella relazione all’Assemblea Pd che lo ha ufficialmente investito, ieri ha dedicato molto tempo al tema. E nel suo primo giorno alla guida del Pd aveva più il piglio e i toni del candidato premier che quello del capo-partito. Ma è anche ben deciso a farlo, il segretario del principale partito di opposizione, e a sopravvivere a quel tritacarne interno che ha già spolpato ogni precedente leader. Con la sua sorridente bonomia e con quella particolare gommosità che lo rende impermeabile alle provocazioni e ai rancori, Bersani ha in pochi giorni chiuso lo scontro congressuale e pacificato gli avversari sconfitti coinvolgendoli nella «gestione plurale» del partito. Certo, ora gli è scoppiata la grana dei Popolari che reclamano «le chiavi di casa» e un posto «di comando» per Beppe Fioroni; ma intanto con Dario Franceschini (futuro capogruppo) è un idillio; Ignazio Marino fa il tifo per lui («Pierluigi, ora facci vincere»); i suoi alleati Rosy Bindi e Enrico Letta sono stati soddisfacentemente sistemati (lei presidente, lui vicesegretario) e anche l’ingombrante Massimo D’Alema è tutto preso dalla sua partita europea. Anche se ieri scherzava: «Se non riesco a farmi nominare alla Ue, resto qui a rompere le scatole», e magari a Bersani sono fischiate le orecchie.
Alla delicata questione della candidatura dalemiana a Mister Pesc, il segretario ha dedicato un passaggio assai cauto del suo discorso: «Siamo orgogliosi che se ne discuta», ha detto. E poi ha tenuto a sottolineare la «novità importante» che non sia emersa «nella classica forma intergovernativa, ma come indicazione politica delle forze progressiste europee». Già, il terreno è scivoloso per il segretario, che deve allontanare il più possibile ogni sospetto di «inciucio» con Berlusconi dalla trattativa aperta con Palazzo Chigi per mandare D’Alema a Bruxelles con l’appoggio pieno del governo. Un governo con cui non c’è nessun «dialogo, parola malata», ma può esserci «confronto su riforme vere», da quelle istituzionali a quelle economiche («A partire dal lavoro») fino alla giustizia. Ma qui Bersani mette subito le mani avanti: è vero che la giustizia in Italia «non va bene, è inefficiente e viene negata ai cittadini». Ma il Pd non vuole toccare «l’equilibrio dei poteri» (leggi separazione delle carriere o riforma del Csm, avversate dalla magistratura organizzata) e respinge «l’insopportabile interferenza delle questioni personali» del premier e la sua «voglia di rivincita» verso i magistrati.
A chi se ne è andato dal Pd non dedica grandi rimpianti, convinto che le defezioni di Rutelli, Cacciari o Calearo non aprano falle pericolose né siano avvisaglie di vere scissioni: «Spiacevolezze», le definisce. Ma che «non lasciano nessun fronte scoperto». Il suo Pd «non coltiva alcuna nostalgia» di identità passate, non è una riedizione dei Ds sotto nuovo nome. E ha una mission: passare dalla mera «opposizione» alla «costruzione di una vera alternativa», dall’antiberlusconismo ideologico e gridato alla responsabilità anche istituzionale di un partito che vuole tornare al governo. E che vuole costruire «un’ampia coalizione di progresso», aperta sia alla sinistra non più in Parlamento che al centro.

Dall’Udc, partito in cima alla lista dei desideri bersaniani sulle alleanze, arriva il plauso di Cesa: «Bersani ha archiviato l’idea barricadera di opposizione che non serve all’Italia». Franceschini invece si raccomanda: «Bene le alleanze, ma per favore non torniamo alle risse dell’Unione».

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