Letteratura

Navi, farfalle e tecnologia. La scoperta del Giappone

L'arcipelago vive di passato e futuro. Una "guida" per comprenderne (e gustarne) anche il presente

Navi, farfalle e tecnologia. La scoperta del Giappone

Sappiamo che la scoperta dell'America viene accreditata a un italiano, Cristoforo Colombo. Con buona pace sia del portoghese Rodrigo de Triana, il quale a bordo della «Pinta» vide per primo, la notte del 12 ottobre 1492, la terra dell'isola di San Salvador (senza peraltro poi intascare il relativo premio in denaro, andato al genovese); e sia della «teoria scandinava» che colloca il momento fatale pressoché allo scoccare dell'anno 1000. E, sempre dalla prospettiva eurocentrica, chi e quando, dall'altra parte del mondo, «scoprì» il Giappone? Tre connazionali di Rodrigo de Triana: Antonio da Mota, Francisco Zeimoto e Antonio Peixoto. Questa volta non per un errore di calcolo delle distanze geografiche, ma per un naufragio che nel 1543 li portò sull'isola di Tanegashima. Seguirono a ruota i gesuiti, portoghesi e anche spagnoli.

Lasciamo ora da parte l'America, anzi le Americhe, e stiamo al Giappone. I portoghesi, come al solito, in Giappone si allargarono a macchia d'olio, mettendo su un fiorente commercio di prodotti e di schiavi, e diffondendo il cattolicesimo. Ma quando Tokugawa Ieyasu, guarda caso nato proprio nel 1543, preparava la decisiva (e per lui positiva) battaglia di Sekigahara contro il daimyo suo concorrente, Ishida Mitsunari, trovò un aiuto, pur se involontario, venuto da molto lontano, dall'Olanda. Anche in questo caso il Fato ci mise del suo, indirizzando il corso della Storia. Infatti nel 1600 la nave «De Liefde», unica superstite di una flotta di quattro imbarcazioni partita da Rotterdam nel 1598 per una spedizione in Brasile e Asia orientale, giunse, con pochi uomini a bordo, sulle coste giapponesi. Giusto in tempo per consentire e Tokugawa di requisire artiglierie, archibugi, proiettili, polvere da sparo, corazze e armi bianche da utilizzare contro Ishida. Diversamente dai cattolici portoghesi, i calvinisti olandesi (che dei portoghesi erano nemici) s'interessavano soltanto a far soldi, senza preoccuparsi di diffondere la loro religione, e così guadagnarono molti punti agli occhi di Tokugawa. Insomma, furono loro a «scoprire» (e non a sfruttare), sempre eurocentricamente parlando, il Giappone.

L'abbiamo presa un po' alla larga prima di metterci Sotto l'ombrello a Tokyo, come titola il saggio di Maria Teresa Orsi e Fabio Sebastiano Tana (Einaudi, pagg. 387, euro 26), perché il filo conduttore di questo informatissimo e affascinante mosaico di «Frammenti di vita giapponese» è la percezione del Giappone da parte del mondo occidentale. La docente di Letteratura giapponese all'Università di Roma, oltre che traduttrice di grandi autori, e il giornalista, oltre che esperto di relazioni internazionali, in Giappone sono di casa a tal punto da non essere quasi più dei gaijin, degli «stranieri». Ma nonostante ciò conservano il talento dello stupore nell'approcciarsi alla vita nel Sol Levante, e lo sommano al piacere di raccontarci un mondo che spesso ci appare impenetrabile.

Una frase dell'Introduzione basta a sintetizzare il sistema di vita laggiù: «in Giappone, e in particolare a Tokyo, la vecchia regola del nulla si crea e nulla si distrugge vale al contrario; tutto si crea e tutto si distrugge». Perché il Giappone è conservazione e rivoluzione, collettivizzazione e capitalismo, tradizione e innovazione. È come se il presente non esistesse se non muovendosi o a ritroso nel passato oppure in avanti nel futuro. Abbiamo parlato prima di navi. Per un arcipelago come il Giappone, prima del trasporto aereo la nave significava tutto: apertura o chiusura, amici o nemici. Dal XV al XIX le chiamavano «navi nere», per il colore e per il fumo dei motori a vapore, ma mentre quelle olandesi erano amiche, quelle statunitensi che l'8 luglio 1853 giunsero all'imbocco della baia di Edo (quindici anni dopo ribattezzata Tokyo) al comando del commodoro Matthew Perry furono subito avvertite come una minaccia. Cominciò infatti allora l'epoca di «Trattati ineguali», cioè delle convenzioni commerciali a tutto vantaggio delle potenze gaijin. Da lì, e dal romanzo Madame Chrysanthème di Pierre Loti (1887), nacque l'orientalismo paternalistico e maschilista di Madama Butterfly, «con l'Occidente/maschio nel ruolo di potenza imperialista alla cui volontà l'Oriente/femmina finisce per soggiacere». Altro che «Un bel dì, vedremo». Infatti, allo scoppio della Seconda guerra mondiale l'opera venne bandita da tutti i teatri giapponesi.

Povera Cio-Cio-San... Tuttavia Puccini (omaggiato di una statua a Nagasaki) dà a Orsi e Tana il la per parlare di altre due Cio-Cio-San: quella vera, Saito Okichi, e quella che la impersonò a modo suo, drammaticamente pop, ereticamente orgogliosa, cioè Miura Tamaki, mirabilmente descritta, fra gli altri, da Mishima nel racconto La farfalla, nonché scandalosamente sfrecciante in bicicletta quando le due ruote erano considerate contrarie al comune senso del pudore, sotto le terga delle donne. Ecco, in Sotto l'ombrello a Tokyo sono soprattutto le donne a tessere la trama. Le geisha o le musmè (ragazze non di rado utilizzate come mogli in affitto dei suddetti maschi occidentali); le protagoniste delle asadora, ovvero le telenovelas mattutine da quindici minuti, importanti «nel processo di Nation building (...) quasi un rumore di fondo nell'agitarsi della vita quotidiana»; regine-sciamane come Himiko, che oggi a Sakurai il marketing turistico presenta come «un po' Hello Kitty e un po' Heidi», ma che può diventare «una specie di Elena di Troia», o somigliare alla Salammbò di Flaubert; oppure kitsune, volpi, personificazioni perturbanti del genere dei bakemono, gli esseri dotati di poteri sovrannaturali: la volpe femmina sa essere dolce e violenta, innamorata e vendicatrice.

Per noi leggere l'immaginario collettivo giapponese che si sedimenta con le mille ricadute della storia, della fantasia e della convivenza fra buddhismo e shintoismo è, oggi, come nell'XI secolo era per un giapponese leggere Genji monogatari, il fluviale romanzo di Murasaki Shikibu. Ecco, un'altra donna. E l'immaginario si fonde con la realtà che è, allo stesso tempo, poetica e tecnologica. Per esempio, da un lato viaggiare in treno fino a farsi tutta la rete ferroviaria del Paese è considerato il massimo dei vanti, magari tuffandosi, fra una tratta e l'altra, nella letteratura da (non di) viaggio nata proprio a questo scopo, e dall'altro c'è quel maestoso e velocissimo (320 chilometri l'ora) treno Shinkansen. Oppure, la fascinazione esercitata dalla Commedia di Dante ha portato alla creazione di autentici parchi infernali con pozze di fango ribollenti e sinistri rumori provenienti da sotto terra. O ancora, alcune montagne «regni del sacro e del disordine», come il monte Miwa che custodisce uno dei grandi «santuari di Stato», sono le dimore dei kami, le divinità, e a pochi è consentito calpestare quei suoli, tuttavia un gigantesco torii (portale del tempio) vi è stato eretto dopo la visita fatta nell'86 dall'imperatore Hirohito.

Peccato, mormorano in tanti ancora adesso, che non sia in pietra o in legno, ma in acciaio.

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