La barca dei migranti si è spezzata in due a cento metri dalla costa calabra e i brandelli galleggiano ancora lungo la riva. Ma a quanto pare la colpa della tragedia non è solo del mare in tempesta. Dalle testimonianze dei superstiti, in gran parte ospitati al Cara di Capo Rizzuto, emerge un quadro ben più agghiacciante. E si ipotizza una manovra azzardata degli scafisti. Che, confondendo una luce lampeggiante a riva per una sirena della polizia, avrebbero spento il motore e cercato di modificare la rotta. Con quelle onde, l'imbarcazione a motori spenti non è riuscita a reggere.
Molti dicono che gli scafisti, negli ultimi minuti prima del disastro, sarebbero saliti su un gommone per fuggire. «Ho sentito i quattro chiamare qualcuno forse per farsi venire a prendere - racconta un sopravvissuto - la barca interrompeva nuovamente la navigazione suscitando ulteriormente i malumori e le lamentele di noi migranti, ormai stremati. I bambini piangevano». «Ho visto che lo scafista siriano e due turchi hanno gonfiato un gommone e sono scappati. Non ho visto cosa ha fatto il turco con il tatuaggio sullo zigomo perché ho pensato di mettere in salvo mio nipote» racconta un altro. Anche la questione della richiesta di soccorso è ben più amara rispetto a una prima ricostruzione: inizialmente si pensava non ci fosse stato il tempo materiale per lanciare un allarme, ma l'incidente non sembra sia stato così improvviso: «A bordo in tanti abbiamo intimato a chiedere aiuto ma nessuno l'ha fatto».
Durante la navigazione «gli scafisti disponevano di un telefono satellitare ad apparecchio che sembrava tipo Jammer per inibire le onde radio telefoniche. Era attivo perché nessuno dei cellulari di noi imbarcati aveva segnale telefonico» racconta un uomo parlando con la Polizia giudiziaria. Il viaggio era già cominciato male. Dopo poche ore dalla partenza la barca è andata in avaria e i passeggeri sono stati trasferiti su una seconda imbarcazione, ammassati nella stiva. E si sono subito resi conto che si trattava di una barca ben peggiore della prima, interamente in legno. «Molti di noi avevano chiesto di spostarsi da dove eravamo stati collocati, poiché c'erano pozze di carburante del tipo gasolio, che il motore perdeva e quando la barca si muoveva di lato, le persone si bagnavano di gasolio».
«Quando l'imbarcazione è stata fermata noi migranti ci siamo lamentati con gli scafisti perché impauriti dalle condizioni del mare volevamo che venissero già chiamati i soccorsi, ma gli stessi quattro componenti dell'equipaggio per tranquillizzarci ci hanno inizialmente mostrato l'iPad raffigurante la rotta e la distanza dalla nostra posizione fino alla terraferma, specificandoci che volevano fare trascorrere quelle ore per poterci sbarcare nel cuore della notte per eludere i controlli di polizia. A questo punto ricordo di avere guardato il mio telefono ed erano le 21 del 25 febbraio. Ho anche compreso che quando i 4 parlavano tra loro avevano anche intenzione di volere riportare l'imbarcazione in Turchia. Abbiamo ripreso la navigazione e dopo circa 7 ore siamo arrivati vicino la costa. Neanche in questa occasione nessuno, sebbene glielo avessimo richiesto ha chiamato i soccorsi». Neanche a dirlo, le condizioni di viaggio erano disumane.
Tutti ammassati sottocoperta, 150 persone tra donne e bambini, invasi dall'odore del gasolio e soffocati dall'assembramento. «Ogni tanto ci facevano uscire per respirare, soprattutto quando il mare ha cominciato ad essere agitato, ma poi tornavamo nella stiva, i bambini continuavano a piangere».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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