 
C’è un vento freddo che torna a soffiare sull’Europa. Non è solo il vento della rabbia o della crisi politica. È qualcosa di più oscuro, di più antico. È l’eco di un pregiudizio che credevamo sepolto tra le macerie della storia, e che invece oggi torna a farsi sentire nei cori delle piazze, nei graffiti sui muri, nei social infuocati dove l’odio diventa virale. Da mesi, le proteste legate al conflitto in Medio Oriente hanno mostrato un volto che va ben oltre la critica legittima a Israele. Ciò che stiamo vedendo è una deriva antisemita che si traveste da militanza politica, ma che in realtà nasconde il riemergere di vecchi fantasmi.
Quando la rabbia supera la ragione si trasforma in pericolo per la sicurezza altrui. In molte città europee da Londra a Berlino, da Parigi a Roma le manifestazioni pro-Palestina, nate per chiedere la fine di una guerra, si sono spesso trasformate in tribune di odio. Slogan come “Morte a Israele” o “Dal fiume al mare”, pronunciati con foga e senza piena consapevolezza, sono diventati l’urlo di piazze in cui la distinzione tra “Stato di Israele” e “popolo ebraico” si è dissolta. E quando si colpisce un intero popolo, quando le sinagoghe devono essere protette dai militari, quando i bambini ebrei vengono insultati a scuola, non stiamo più parlando di politica: stiamo parlando di antisemitismo. Purtroppo il nostro Paese non è immune. Anche nel nostro Paese abbiamo assistito a episodi che fanno male. Durante alcune manifestazioni pro-Palestina, bandiere di Israele sono state bruciate, stelle di David cancellate dai muri e studenti ebrei costretti al silenzio per paura.
A Milano, Roma, Bologna, sono comparsi striscioni dal sapore sinistro: parole che non criticano una politica, ma negano un’identità. Eppure, Israele al di là delle opinioni politiche di ciascuno è una democrazia, un Paese dove le donne votano, dove la stampa è libera, dove le minoranze siedono in Parlamento. Colpire Israele in quanto tale significa colpire il diritto stesso alla democrazia, e con esso ogni società libera. Il dovere del coraggio deve iniziare a farsi sentire forte senza paura. Oggi, più che mai, serve coraggio. Il coraggio di dire che l’antisemitismo non è un’opinione. Il coraggio di distinguere tra critica e odio, tra dibattito e persecuzione, tra dissenso e disumanizzazione. Perché chi urla “Israele assassina” guardando negli occhi un ebreo non sta contestando una politica: sta insultando una storia, una memoria, un popolo che ha già conosciuto l’abisso dell’odio.
È in questi momenti che si misura la tenuta morale di una società. Le democrazie non si difendono solo con le leggi o con le armi, ma con la voce di chi non tace davanti all’ingiustizia. Non basta più dire “mai più”. Bisogna agire, parlare, schierarsi non per alimentare lo scontro, ma per difendere la civiltà. Oggi, essere amici del popolo ebraico non è una scelta di parte: è una scelta di coscienza. Significa difendere la libertà, la tolleranza, il diritto di esistere senza paura. E allora, come scrisse qualcuno in un post che da allora porto nel cuore: “Se fate una lista di ebrei o amici del popolo ebraico, aggiungete anche me.” E si! io risponderei: aggiungente anche me. Perché la democrazia non è silenzio. È voce, rispetto, responsabilità.
È dire “non sono d’accordo” senza minacciare, è protestare senza odiare, è ricordare che ogni parola ha un peso, e ogni gesto può costruire o distruggere. E noi, oggi, dobbiamo scegliere di costruire e non di distruggere.