La miniera che conserva il futuro

Siamo a Tassullo, Val di Non, Trentino. E ciò che accade qui dovrebbe interessare chiunque si domandi come si fa a resistere, innovare, restare umani

La miniera che conserva il futuro

Non è più solo buio, polvere e sudore. La miniera è un orizzonte. È un luogo che non scava soltanto pietra, ma tempo. Là dove una volta l’uomo si calava con la lanterna e il piccone, oggi si accende la luce fredda dei server e dei dati. È una storia italiana, e come tutte le storie italiane nasce da un paradosso: scavare nel passato per costruire il futuro. Siamo a Tassullo, Val di Non, Trentino. E ciò che accade qui dovrebbe interessare chiunque si domandi come si fa a resistere, innovare, restare umani.

C’è una miniera viva, ancora attiva, che invece di morire diventa madre. Non solo per la Dolomia che fornisce, ma perché quel vuoto – che altrove è solo scarto – viene trasformato in ventre fecondo. Si chiama Intacture, e non è un nome da poco: vuol dire intatto, ma anche strutturato, architettato, curato nella sua identità più profonda. È il primo data center d’Europa costruito all’interno di una miniera attiva. E forse, è il primo segno di un nuovo modo di intendere l’intelligenza artificiale: non più solo algoritmi in fuga nel cielo, ma radicamento. Dati e roccia. Intelligenza e geografia. Il cloud che scende nelle viscere.

Quello che si sta creando è un ecosistema. Non un’utopia, ma un laboratorio reale. La miniera diventa serra. La pietra, rifugio. Il freddo naturale, risorsa. Qui riposano bottiglie pregiate di Trento DOC, qui si conservano mele Melinda senza frigoriferi, qui il Trentingrana stagiona al riparo da luce e rumore. E ora, anche i dati. Con una logica nuova: non più mega-cattedrali energetivore, ma piccoli templi distribuiti. Si chiamano Edge Data Center, e servono a portare i servizi digitali vicino alle comunità, alle imprese, alle istituzioni locali.

È il contrario della centralizzazione, è l’elogio della prossimità. Ed è, soprattutto, un’idea. Quella che il futuro non debba per forza distruggere ciò che siamo stati. Che la montagna, con la sua durezza e pazienza, possa insegnare alla tecnologia la misura del tempo. Qui non si corre. Si costruisce. L’Università di Trento guida un consorzio di imprese. Si lavora insieme. Si progetta. Si investono 50 milioni, metà pubblici, metà privati. Non si fa retorica sulla transizione digitale: la si abita. La parola chiave è rigenerazione. È un termine che oggi rischia l’inflazione, ma qui ha il peso della roccia. Non si tratta di rivestire di verde le vecchie logiche industriali. Qui si capovolge il paradigma: l’ipogeo non è più il fondo, ma l’inizio. È una rinascita che parte da sotto. Una rivoluzione silenziosa, come il luogo che la ospita.

Intacture è un nome, ma è anche una visione. Non si limita a custodire dati: vuole farli crescere. Sarà uno spazio per le startup, per le PMI, per le PA. Un acceleratore. Una fucina. Un cuore che batte al ritmo lento e sicuro della montagna. E che dice qualcosa a tutti noi: che non serve andare lontano per trovare il futuro. A volte basta tornare nei luoghi dove ci siamo scavati dentro. E chiedere alla terra di proteggerci ancora. Il lusso non è nella velocità. È nella profondità. Non nella connessione permanente, ma nella continuità consapevole. Non nel consumo, ma nella cura. È questa la lezione del Trentino, terra che conosce il peso delle sue pietre e il valore della sua memoria. Intacture è il simbolo di un’Italia che non rinuncia alla propria forma per inseguire mode digitali, ma che semmai le piega al proprio paesaggio, alla propria storia, alla propria identità.

La miniera non è più soltanto un posto dove si consuma il corpo. È diventata un luogo dove si custodisce l’anima. Dove si può ancora credere che l’innovazione abbia un volto umano, e che anche i bit, se curati, possano maturare come un buon vino o una forma di formaggio stagionato nella pazienza della pietra. È quello che in fondo ricordava Tiziano Terzani nei suoi viaggi a passo d’uomo. “Ogni posto è una miniera.

Basta lasciarcisi andare, darsi tempo, stare seduti in una casa da tè ad osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l’amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scavare”.

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