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Se la violenza è femminista allora va bene

Da Non una di meno che attacca la sede di Pro Vita alle femministe che propongono esempi di rabbia per le donne

Se la violenza è femminista allora va bene

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Le femministe di Non una di meno, durante la manifestazione contro la violenza sulle donne che si è tenuta ieri a Roma, hanno assaltato la sede di Pro Vita. Gli slogan “fucsia” erano quelli di sempre: fascisti, carogne, bastardi. Indirizzati tanto ai poliziotti quanto all’associazione pro life.

Il bambino dipinto all’ingresso della sede ha fatto impazzire le femministe. E non poteva essere diversamente. È proprio quell’esserino, che loro considerano un grumo di cellule, a ricordare alle femministe che non sono regine assolute, cioè senza legami. No, ne hanno uno, fatto di cellule e sangue, il cordone ombelicale, che le lega al figlio che possono accogliere o ammazzare. Sta a loro decidere. Se ferire e ferirsi, perché l’aborto lascia sempre un dolore indicibile in chi lo compie. Oppure accettare quel mistero che è la capacità di accogliere la vita che hanno in grembo. È, quello di Non una di meno, il nuovo femminismo, talvolta violento, non solo a parole ma anche nelle azioni, che viene esaltato dai giornali progressisti. Come se esistesse una violenza buona, quella femminista, e una cattiva, quella maschile. La prima è lecita, la seconda invece no.

Nelle scorse settimane, per esempio, Repubblica ha proposto alcuni modelli femminili per le donne di oggi. Modelli di rabbia, “un’emozione a lungo messa tacere”. Del resto, spiega l’autrice dell’articolo, Nadia Terranova, “la rabbia delle donne somiglia a un’esplosione, a un’eruzione vulcanica. Irrompe e squarcia, distrugge e terrorizza. (...) La rabbia delle donne non regna, anzi: distrugge”. È l'elogio della rabbia. Delle emozioni viste come un qualcosa che non si può governare. Non è così, ovviamente. Anche perché l’ira è una passione che, come tutte le altre, va dominata. Indipendemente dal sesso. È proprio l’“ira di Achille”, cantata nell’Iliade, che porta con sé morte e distruzione. Per Omero non è quello il modello maschile da seguire. È certamente un esempio tragico e affascinante. Ma l’uomo vero, quello completo, di questo poema epico è un altro: Ettore. Il “piè veloce” è colui che annienta tutto, che non ha rispetto per i morti e che, pur desiderando l’immortalità in battaglia, muore in modo sciocco: colpito dal pavido Paride. Il principe troiano, invece, combatte e muore da eroe. E tutti provano un senso di vergogna e ingiustizia di fronte allo scempio che Achille fa del corpo di Ettore. Lo odiano. Odiano la sua ira. La sua hybris, che sfida la pietà.

Gli esempi che cita Repubblica sono esempi di rabbia "buona". Come le Erinni, incredibili furie che possiedono Medea, la quale ucciderà il suo stesso figlio. Un infanticidio, considerata l’età del bambino. O un aborto, se proviamo a leggere la tragedia in senso allegorico. Le Erinni rappresentano la vendetta, che è cieca, e solo quando vengono placate diventano Eumenidi, portatrici di giustizia. E ancora. L’esempio di Scilla e Cariddi. Per la Terranova, sono “ninfe diventate mostri, punite per superbia e per gola, ovvero rispettivamente per aver rifiutato un pretendente sgradito e per aver mangiato per sbaglio i buoi di Gerione”. Quella del pretendente sgradito è solo una delle versioni. Un’altra, invece, quella di Servio, afferma che Scilla sarebbe stata tramutata in mostro a causa della gelosia di Anfitrite, sposa di Poseidone. Si tratterebbe quindi di una vendetta tra donne. Lo stesso scenario dell’altro esempio citato da Repubblica: Uma Thurman in Kill Bill. Anche lei, come le Erinni e Anfitrite, cerca vendetta. Ammazza tutti. Uomini e donne. Un esempio di violenza, dunque. Che però viene accettato senza problemi e, anzi, proposto ai lettori.

Scrive la Terranova: “La rabbia è uscita dalla mitologia ed è diventata organica, uno strumento di resistenza quotidiana attraverso la denuncia virale”. È vero, purtroppo. È la rabbia che si mette alla ricerca di modelli simili. Perché la rabbia delle femministe di Non una di meno è come quella delle Erinni. È una violenza che tutto annienta. È la stessa violenza di chi, di fronte a una donna ammazzata da un uomo, dice che siamo tutti colpevoli, puntando il dito contro il patriarcato. È la stessa violenza di chi predica odio nei confronti dell’altro sesso, visto (a torto) come prevaricatore. È la stessa violenza che prima era la lotta di classe e che ora è diventata lotta di genere. Una prospettiva che annienta ogni alleanza tra uomini e donne. E che fa male a tutti.

Donne comprese.

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