Nel bell’affresco israeliano di Suleiman il patriottismo si nutre nel silenzio

Chi ha seguito il Festival, che oggi finisce le proiezioni, ricorderà quattro o cinque film. Fra questi c’è Il tempo che resta di Elia Suleiman, storia di famiglia e solidarietà, ma soprattutto storia malinconica e buffa, di patria oppressa e patriottismo sommesso.
Cristiano-palestinese, Suleiman aveva già proposto a Cannes sette anni fa Intervento divino, sul contrastato amore fra giovani arabi d’Israele e dei Territori occupati. Il tempo che resta è invece l’evocazione di sessant’anni di Israele, visti non nell’ottica delle celebrazioni occidentali dell’anno scorso, ma in quella degli arabi cristiani e musulmani di Nazaret, diventati dal 1948 cittadini israeliani a sovranità limitata. Caduto il Muro di Berlino, è sorto il Muro d’Israele, ma anche per chi l’ha costruito sarà duro bollare Suleiman come «terrorista»: il più esplicito atto di resistenza, nel suo film, è afferrare silenziosamente - il silenzio, ecco la chiave del film - un’asta, prendere la rincorsa e saltare il Muro!
Ma Suleiman non cela mai la realtà dietro la poesia: si vedono anche la guerra del 1948 e l’Intifada del 1989-90, perché il futuro padre (Saleh Bakri) di Elia Suleiman aveva adattato armi inglesi a munizioni tedesche nel 1948. Lui è il protagonista della prima parte del film. Anche se aveva dovuto arrendersi, aveva continuato a essere sorvegliato: infatti ogni tanto bruciava una bandiere israeliana... Quando il piccolo Elia (Zuhair Abu Hanna) va a scuola, a Nazaret, ha le sue peripezie, perché dice agli altri bambini che «gli americani sono colonialisti». E il maestro insiste: «Chi ti insegna queste cose?».
Già, chi? Un padre che invecchiava senza rassegnarsi, educando il figlio, che a sua volta è invecchiato senza rassegnarsi. Con qualche ragione, dicono i rapporti di forza demografici. Davanti alle nascite tre volte più importanti degli arabi rispetto agli ebrei israeliani, il destino di Israele rimanda a quello dell’Algeria francese e del Sud Africa bianco.
Poi c’è la parte familiare. Borghesi, i Suleiman sono una famiglia con vicini molto peculiari, tutti più o meno condizionati dall’occupazione. Infatti i palestinesi non sono tutti guerri(gli)eri e c’è chi s’è adattato al dominio ebraico, così come i genitori e nonni s’erano adeguati a quello ottomano. C’è per esempio chi denuncia il cugino (Suleiman padre, cioè) all’Haganah, poi chi fa cantare ai bambini arabi le canzoni patriottiche israeliane, chi entra nella polizia israeliana...
Suleiman non condanna i collaborazionisti e nemmeno gli occupanti, non ha il gelido rigore giacobino di Vercors nel suo romanzo sull’occupazione tedesca, Il silenzio del mare, poi portato sullo schermo da Jean-Pierre Melville. Gli ebrei di Suleiman sono invasori, non mostri. Il tempo che resta non è manicheo. Al nemico qui si spara, da parte araba, per aver migliori posizioni dalle quali trattare quando non si sparerà più. Ma poi magari si perde e ci si trova alla mercé dell’altro. Probabilmente questa concezione realistica e non ideologica della guerra valeva anche per certi ebrei del 1948. Ci sarebbe voluta la guerra del 1967 perché Israele negasse la qualifica di nemico al medesimo, per ridurlo a «terrorista».

Ma come fare la pace con qualcuno di cui si nega la parità politica? La Francia, che ha tuttora ambizioni sul Libano e dintorni, ospita a Cannes il film di Suleiman anche perché le permette di sostenere una posizione intermedia nel conflitto mediorientale. I giornalisti hanno ampiamente applaudito il film di Suleiman per la gioia sua, ma anche per quella di Nicolas Sarkozy.

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