Marcello Foa
È dal 1982 che gli hezbollah fanno parlare di sé, ma a intermittenza. Un attentato, una guerra, un rapimento: per giorni finiscono in prima pagina; poi più niente per mesi talvolta per anni. E i lettori inevitabilmente perdono il filo: sì tutti sanno che gli hezbollah sono un gruppo estremista islamico; i più esperti si ricordano che sono sciiti e che sono legati all'Iran. Ma più in là pochi sanno andare e la comprensione degli avvenimenti che riguardano il Libano resta frammentaria.
Gian Micalessin nel suo saggio Hezbollah - Il partito di Dio, del terrore e del welfare, (Boroli editore) rimedia finalmente a una lacuna: con una narrazione lineare e avvincente spiega che cosa sia davvero il Partito di Dio e a che cosa miri. Riesce a rendere semplice e comprensibile un tema che in sé è assai complicato.
I lettori del Giornale conoscono bene Gian Micalessin: inviato di guerra, da anni segue le vicende medio-orientali e in particolare quelle legate a Israele, alla Palestina, al Libano. Ha il passo del cronista appassionato e al contempo la razionalità di chi sa individuare il quadro strategico di una notizia. Il libro rispecchia queste sue caratteristiche: è vivace e immediato nella rievocazione dei fatti cruciali, completo ed equilibrato nell'analisi. Si conclude con una postfazione di Maurizio Stefanini, che ripercorre con agilità trentaquattro secoli di storia del Libano, dai fenici ai giorni nostri. Quando si arriva all'ultima pagina si ha l'impressione di conoscere davvero Hezbollah. La ricostruzione è oggettiva e per questo lascia una sensazione di sgomento.
In 24 anni questa formazione voluta, finanziata e addestrata dall'Iran di Khomeini, si è dimostrata cinica e straordinariamente duttile nell'adattarsi alle diverse fasi della travagliata esistenza del Paese dei cedri, ma senza mai rinunciare a perseguire gli obiettivi finali, delineati nel manifesto di metà anni Ottanta; il manifesto dell'odio: distruggere Israele, descritto come «un nemico da cancellare», espellere gli americani, i francesi e i loro alleati, respingere «l'abominevole dottrina materialista che sottende il brutale capitalismo dell'Occidente». Il dovere di ogni buon islamico è di «respingere questa invasione» e di imporre «un governo islamico, l'unico capace di garantire giustizia e libertà per tutti».
Nel Dna di questo movimento non c'è alcuna volontà di dialogo e di compromesso. Micalessin osserva che «lo scontro di civiltà disegnato da Samuel Huntington nel suo testo del 1996 è già preconizzato da Hezbollah e dai suoi teorici dieci anni prima». E secondo queste logiche la vittoria o la sconfitta non possono che essere assolute. Da qui la concezione del martirio suicida. Sono stati loro a idearlo, loro ad applicarlo per primi perché «il buon guerrigliero del Partito di Dio non può accontentarsi di combattere per la Guerra santa, deve anche desiderare di morire per la Guerra santa».
Dietro a ogni scelta è evidente la lunga mano di Teheran. Sono gli iraniani a fornire finanziamenti, armi, addestramento, a suggerire le strategie per conquistare consenso nella popolazione attraverso una capillare ed efficace rete di assistenza sociale. Gli Hezbollah sono uno degli strumenti usati dagli ayatollah per combattere una guerra che è ormai regionale e coinvolge la Siria, i palestinesi e, ovviamente Israele, a cui, peraltro, il saggio non risparmia le critiche.
Il governo di Gerusalemme continua a non comprendere le logiche e la mentalità del Partito di Dio libanese: ogni volta che l'esercito israeliano è persuaso di aver portato un colpo fatale al movimento, ad esempio eliminando i principali capi militari, ottiene l'effetto opposto.
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