"Nel mio romanzo oso dire che la follia spesso è soltanto ribellione all'iniquità"

La vincitrice del premio Campiello Wanda Marasco: "È importante rispettare il patto col lettore"

"Nel mio romanzo oso dire che la follia spesso è soltanto ribellione all'iniquità"
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La vittoria è arrivata con 86 preferenze dalla Giuria dei 300 lettori anonimi superando di appena 3 voti il secondo classificato, ma con il suo romanzo Di spalle a questo mondo (Neri Pozza) la scrittrice napoletana Wanda Marasco, ha conquistato la 63esima edizione del Premio Campiello, superando appunto Fabio Stassi con Bebelplatz, seguito da Monica Pareschi con Inverness, poi Alberto Prunetti con Troncamacchioni e Marco Belpoliti con Nord Nord. Classe 1953, la Marasco è scrittrice, poetessa, attrice e regista, laureata in filosofia e diplomata in regia alla Silvio D'Amico di Roma, già insegnante di lettere a Scampia e autrice precoce, che ricevette nel 1978 il premio per la poesia William Blake. È usa alle candidature, specie allo Strega, meno alle vittorie: dopo l'esordio nel 2003 con L'arciere d'infanzia (Manni), Il genio dell'abbandono (2015), La compagnia delle anime finte (2017), e ora Di spalle a questo mondo (tutti Neri Pozza) sono stati finalisti Strega, oltre ad essere parte di una ideale trilogia storica ambientata a Napoli tra Otto e Novecento. Coraggio, convinzioni, pazzia e rapporto con la moglie Olga del medico Ferdinando Palasciano, protagonista del romanzo vincitore, considerato il precursore della Croce Rossa e morto internato, sono al centro di una storia dalla prosa densa, favorita sin dall'inizio dai voti della giuria tecnica del Campiello.

Finalmente sul podio.

"Un bel segnale, di onestà. Chi ha letto il libro non ha potuto fare a meno di prenderlo in considerazione, di amarlo. La vittoria è una gioia bellissima e sono onorata, anche delle intelligenze che ho avuto come compagni di viaggio. Ma ho avuto paura fino all'ultimo: ho accumulato esperienza in questi mesi di come può essere imprevedibile un premio".

Non è un libro facile.

"Avevo timore che sia la quantità che la densità mi rifiuto di definirla complessità: si tratta di un romanzo denso come Derrida intendeva la densità - potessero stancare i lettori, farli sentire demotivati e direzionarli verso romanzi più brevi, comunicativi e facili. Ha vinto il patto che uno scrittore fa con il lettore: Ascoltami, voglio arrivare fino a te, all'altro, che sono anche io".

Il romanzo è in bilico tra storia e fiction: come ha gestito il passaggio dai fatti reali alle visioni?

"All'inizio, quando studiavo la vita di Palasciano, mi sono trovata di fronte una figura integra moralmente, una sorta di santino. Poi ho iniziato a vedere le forme di esilio, di rifiuto e ho compreso che la follia poteva diventare narrazione insieme alla poesia. Il libro è pieno di stratificazioni, monologhi e momenti meditativi di Palasciano, importanti per comprendere la follia come rivolta personale. Mi hanno sorretto gli ultimi quattro anni della sua vita, in cui venne colpito da questa forma di schizofrenia e le cronache del Mattino dell'epoca, che narrano dei suoi deliri per strada, del discorso al popolo rivelando i nomi dei governanti corrotti o di quando compra per strada un asino. Mi hanno indicato quali erano le parti doloranti e buie. Quando mi è stata chiara la battaglia tra i mostri interiori, quelli della storia e quelli delle sue utopie allora ho potuto cominciare: avevo il mio antieroe".

La follia al centro, come in altre sue opere, in modo positivo. Perché?

"È un positivo derivato, con citazioni d'anima dalle grandi figure di teatro e letteratura, coloro i quali hanno cominciato un'inchiesta per scoprire il segreto della propria ferita: Edipo, Antigone, Medea, la Karenina, Amleto, Sigismondo, Chisciotte sono ovviamente in me. Archetipi che si ribellano all'iniquità e che ho incontrato anche nella vita, o per situazioni familiari o per le strade di Napoli. Nei vicoli abbiamo uomini caduti in disgrazia, senza più destino, senza più storia, che conducono lunghi monologhi alludendo ai responsabili della loro sofferenza, in cui si sente il j'accuse rivolto a società e famiglia, e che finiscono per pronunciare frasi filosofiche".

Lei nasce scrittrice?

"Nascere no, pian piano si diventa. C'è bisogno di tanta formazione e persino dei malintesi. Però qualcosa di magico c'è sempre stato: in terza elementare si facevano i cosiddetti pensierini e i miei avevano già un loro visionarietà. Tanto che la maestra veniva a controllare sotto il banco. Al tema sulla mamma, pur di non parlare soltanto della mamma, chiesi: Maestra, posso fare il tema sulla mamma di tutti, cioè sulla Madonna?".

Primi tentativi di reinvenzione.

"La mia infanzia diventò subito una sorta di giuramento, un patto demoniaco che strinsi coi luoghi, con le persone, coi primi libri letti.

Da questo deposito di memoria vivente che è in me partirò per il mio nuovo, prossimo romanzo: da una donna degli anni Sessanta e dalla sua infanzia assoluta. Non solo la storia di una donna e della letteratura, ma la raccolta della storia delle storie. Non le dico altro però, perché qui rubano tutti e invece di copiare i grandi copiano i piccoli come me".

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