NEL NOME DELL’ITALIA

Dal torpore che a mio avviso contraddistingue le celebrazioni nazionali per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità emergono lodevoli iniziative locali o di singole istituzioni culturali. Tra queste ultime mi sembra degna di segnalazione la pubblicazione degli scritti di Cavour per iniziativa di Libro Aperto, rivista liberale fondata da Giovanni Malagodi.
Di Cavour, protagonista assoluto del Risorgimento, ricorrono i due secoli dalla nascita e il secolo e mezzo dalla morte che coincise con la realizzazione del suo straordinario disegno politico. In precedenza Libro Aperto aveva dato alle stampe I verbali dei governi Cavour e, in altro volume, gli Scritti economici. Adesso arriva questo Scritti e discorsi politici curato da Pierluigi Barrotta, Marco Bertoncini e Aldo G. Ricci. Anche se la veste è modesta e la scelta dei testi ridotta, il volume ha grande interesse. È vero che di Cavour si sa già molto, quasi tutto. Altrettanto vero è che, nell’infuriare delle polemiche sui suoi progetti e sulla loro realizzazione, riesce utile ribadire, documenti alla mano, quanto quel subalpino sia stato italiano e europeo. Un realista aperto e intelligente che tuttavia respingeva «la pericolosa o funesta soluzione del voto universale». Un pragmatico che peraltro subì il fascino delle attese e delle illusioni di tanti, lui compreso, alla vigilia della prima guerra d’indipendenza, quando si inneggiava al Papa progressista. «A dar valido fondamento a queste nostre speranze - scriveva il 4 febbraio 1848 il trentottenne Cavour - più d’ogni altra cosa contribuisce la illuminata fiducia che abbiamo \ nei nostri principi. L’Italia confida in essi. Roma, Firenze e Torino sono certe che Pio (IX), Leopoldo e Carlo Alberto, magnanimi iniziatori del Risorgimento italiano, sapranno condurre a compimento la gloriosa ed impareggiabile loro impresa, fondando su ferme e profonde basi il più splendido edificio dei tempi moderni. La libertà italiana».
Forse troppa ingenua enfasi patriottica, in queste frasi, ma non certo la gelida allergia ai massimi ideali che i detrattori vogliono imputare al conte. Rimproverandogli anche d’essere sovente stato, come «tessitore», bugiardo. Quasi che la dissimulazione non sia, in chi giuoca sugli scacchieri nazionali e internazionali, una indispensabile dote. Leggete con quale fierezza lo stesso trentottenne esordiente della scena pubblica rivendicava la sua qualifica di moderato: «Gli uomini delle misure energiche, gli uomini davanti ai quali noi non siamo che miserabili moderati, non son già nuovi nel mondo. Ogni epoca di rivolgimento ha avuto i suoi. E la storia c’insegna che non furono mai buoni se non ora ad accozzare un romanzo, ora a rovinare le cause più gravi dell’umanità».
Ponendo sul tappeto in un discorso alla Camera, quando già era a capo del neonato regno d’Italia, il tema fondamentale dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, Cavour non ebbe ambiguità: «Ove si potesse concepire - disse - l’Italia costituita in unità in modo stabile senza che Roma fosse la sua capitale io dichiaro schiettamente che reputerei difficile, forse impossibile, la soluzione della questione romana. Perché noi abbiamo il diritto, anzi il dovere, di chiedere, d’insistere perché Roma sia riunita all’Italia. Perché, senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire». Il sabaudo francesizzante che a Roma non mise mai piede ne sentiva tuttavia l’indispensabilità. Disse chiaro e tondo che Roma in quelle circostanze si poteva averla solo con il consenso dei francesi, ma affermò risoluto che la sua Torino doveva rinunciare al rango di capitale. Si permise - era un eccellente argomentatore parlamentare - qualche guizzo d’ironia: «Per quanto personalmente mi concerne gli è con dolore che vado a Roma. Avendo io indole poco artistica (si ride) sono persuaso che in mezzo ai più splendidi monumenti di Roma antica e Roma moderna, io rimpiangerò le severe e poco poetiche vie della mia terra natale».
Fu sferzante contro lo Stato della Chiesa: «Non possono essere i seguaci di Colui che sacrificò la vita per salvare l’umanità quelli che vogliono sacrificare un intero popolo, che vogliono condannarlo ad un continuo martirio, per mantenere il potere temporale dei suoi rappresentanti su questa terra». Alla fine una vera e propria sfida a Pio IX.

Se questi avesse perseverato negli anatemi e nelle scomuniche «la gran maggioranza della società cattolica assolverà gli italiani e farà cadere su coloro a cui spetta la responsabilità delle conseguenze della lotta fatale che il pontefice volesse impegnare contro la nazione in mezzo alla quale esso risiede». Fu l’ultimo solenne atto pubblico del genio che ha fatto l’Italia.

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