
In Un venerdì di aprile (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella, pagg. 120, euro 16,50), lo scrittore Donald Antrim fornisce ottantasette modi per nominare il disagio mentale, su oltre cento che elenca collegati al suicidio: nessuna di queste etichette da manuale medico tuttavia lo aiuta a capire perché sta come sta. Il romanzo-memoir di Antrim è solo uno dei tanti libri appena usciti sul tema, tutti o quasi legati a una esperienza autobiografica o familiare e tutti o quasi accomunati soprattutto dall'urgenza di scaricare sulla pagina l'esperienza dei ricoveri, delle guarigioni troppo spesso temporanee, del dolore incomunicabile, delle terapie incomprensibili o, peggio, vissute come violenza e di una solitudine che è il dolore più grande di tutti e che solo la scrittura pare, almeno in parte, lenire. Perché la malattia mentale è Una piccola fine del mondo, come la definisce nel titolo del suo saggio appena pubblicato sulla crisi psicotica lo psichiatra Paolo Milone (Einaudi, pagg. 120, euro 13).
Nel caso dell'americano Antrim il racconto parte appunto da un venerdì di aprile del 2006 in cui lo troviamo a camminare sul tetto del suo condominio a Brooklyn, su e giù per la scala antincendio o aggrappato alla ringhiera, che molla solo quando i palmi sono indolenziti per tornare a raggomitolarsi nel letto. È una crisi suicidiaria più forte delle altre, che lo conduce a un ricovero determinante: da quel venerdì Antrim entra in circa un decennio di lunghe degenze e oltre cinquanta cicli di elettroshock (oggi si chiama Tec, terapia elettroconvulsivante). Lo seguiamo passo passo non tanto e non solo nella descrizione della sua psicosi, ma di come la malattia lo porti a vedere il mondo. A farlo stare meglio sono spesso le parole e meno spesso i farmaci, ma non è nemmeno questo che conta: «Sono vivo», è quello che Antrim si ripete ad ogni punto di svolta, ad ogni apparente guarigione. Capiamo presto una verità atroce: la libertà dai sintomi è soprattutto libertà da un terrore indicibile, che isola il malato da ogni affetto e lo priva presto persino della pietà altrui.
Esordisce proprio con un romanzo sul disagio mentale Sara Colombo: poco più che trentenne, porta in libreria Lascia che la vita accada (Ponte alle Grazie, pagg. 240, euro 18), in cui il protagonista, Luca, alla terza riga si chiede «Sono morto?», dopo un tentativo di suicidio non riuscito. Luca è lo schermo su cui la scrittrice proietta un percorso familiare e di crescita che si è distorto, un giorno alla volta, a partire dai traumi vissuti nell'infanzia. La Colombo, classe 1994, carriera in editoria, figlia del magistrato Gherardo - che nel libro appare come un personaggio padre distante, assente, causa di un trauma legato al costante pericolo «usa» l'alter ego Luca per parlare di rabbia, condizionamenti, desiderio, sollievo. Provare ad abbattere il muro a forza di alcool, bombardamento chimico e psicofarmaci non fornisce spiegazioni sufficienti. Non per una scrittrice. Per questo la ricerca che la Colombo descrive del perdono e della fiducia necessari a far riemergere dall'inconscio il conscio vale ben un romanzo.
Testimonianza cruda sulla convivenza con un disturbo psichiatrico è anche Lo sbilico di Alcide Pierantozzi (Einaudi, pagg. 240, euro 19,50): una quotidianità tra farmaci e terapie crea una mappa del tormento mentale tra autofiction e romanzo puro, in cui si alternano cartelle cliniche e introspezione. Pierantozzi si triplica: «filosofo della propria follia», cronista e analista del tumore materno. Ricerca storica e biografia letteraria si intrecciano invece nella narrazione della follia di Dino Campana che fa Renato Martinoni in Ricordi di suoni e di luci (Manni, pagg. 176, euro 17), candidato in dozzina allo Strega. Lo strambo, lo spostato, lo squilibrato, il matto che è Campana sente sempre l'urgenza di partire al più presto: «Non ha amici. Né prova affetti. Non ha mai amato una donna se non pagandola per un'ora. Non c'è nulla che lo tenga inchiodato a un posto. Ogni luogo, del resto, fa da cornice alla sua sola compagna: la solitudine». E così proprio la follia rimane l'unica compagna, fino alla morte in manicomio nel 1932, dopo quattordici anni e due mesi tra i dementi, dove lo hanno recluso perché non facesse del male a nessuno.
Storie di radici familiari sono invece quelle che accomunano le opere di Nadia Terranova e di Serena Vitale. La prima in Quello che so di te (Guanda, pagg. 272, euro 19), anch'esso in dozzina allo Strega, scava in quella che chiama «Mitologia Familiare» per estrarne la prova esistenziale di Venera, la sua bisnonna. La donna si ritrova, in un giorno di marzo, ricoverata al Mandalari, il manicomio di Messina, centotreesima donna internata nel 1928 tra «le represse, le isteriche, le esaltate, le ammattite, le nevrotiche, le uterine, le irrisolte». Di nuovo l'isolamento, che la scrittrice sente come suo, e la responsabilità di interrompere la linea di follia che da Venera passa fino a lei attraverso le donne della famiglia: il romanzo narra di chi sa e nasconde, tace, sotterra documenti e faldoni, per precauzione, per paura, per vergogna. Finché la testa si risolleva con la letteratura, fino a sperare che la follia si trasformi in una sorta di bandiera anarchica, da sventolare in faccia al mondo sano.
Diversa per coordinate geografiche, temporali e dunque mitologiche la storia di Serena Vitale, ma egualmente intensa ed ancorata al pozzo profondo delle memorie familiari. In Cartella clinica (Sellerio, pagg. 128, euro 13), la sorella maggiore Rossana ha 17 anni, è il 1958, quando comincia a guardarsi allo specchio continuamente. E' l'inizio del disagio: ricoveri e cure, dalle dosi sempre maggiori di insulina - per indurre shock e stato comatoso, secondo la terapia ideata dal neurologo ucraino Manfred Sakel negli anni Trenta a perfenazina, reserpina, clorpromazina, fino alla lobotomia. «E portarla da uno psicanalista?», aveva azzardato un giorno zio Fulvio. «Uno di quei medici che curano la mente. Quando stavo in America da zio Navino io ci andavo». La risposta del nonno è lapidaria: «Si vede, come ti hanno guarito! Finocchio sei rimasto!».
La Vitale non si ferma davanti a nessuna cartella: rivela ogni segreto, per omaggio ad una sorella da lei troppo poco conosciuta di cui troviamo una splendida foto alla fine del libro e per sentirla vicina senza paura della pazzia, a vendicare le due righe che troviamo all'inizio del libro «Famiglia gravemente tarata dal lato psichiatrico».