Nel Pd ora si fa il tifo per le schede bianche e le icone della destra

RomaNella confusa vigilia delle primarie Pd spuntano anche il partito delle schede bianche e quello del candidato che non c’è, e non ci può essere. Come Gianfranco Fini, ad esempio, che secondo Francesco Rutelli potrebbe vincere a man bassa nel Pd perché «è la vera icona della sinistra, il più amato di tutti», però sta da un’altra parte.
Nel partito «bianco» si sono già arruolati importanti dirigenti e illustri maître à penser: c’è il sindaco di Venezia Massimo Cacciari che a chi gli chiede che farà il 25 ottobre replica: «Perché, che succede quel giorno? Ah, le primarie... », e annuncia che lui non voterà nessuno dei tre candidati. C’è il sindaco di Torino Sergio Chiamparino che anche lui non sa chi scegliere, e dice che lascerà in bianco la scheda, anche se in Piemonte sta dando una mano al candidato regionale di Franceschini, Cesare Damiano. Chiamparino ha una motivazione in più per non schierarsi, rispetto a Cacciari: è ancora la vera, e al momento unica, «réserve de la République» del Pd, e se stavolta ha fatto un passo indietro e ritirato la candidatura, potrebbe tornare in campo al prossimo giro. Che, conoscendo i tempi di consumo dei leader del Pd, potrebbe non tardare troppo: le Regionali del prossimo anno, in caso di risultati men che straordinari, possono già essere il primo passo.
Infine si è schierato con le schede bianche anche il direttore di Repubblica, Ezio Mauro. A meno che, ha precisato, «qualcuno di questi candidati mi faccia capire che l’emergenza costituzionale sarà per lui al centro». La scheda bianca di Mauro è più che altro un atto diplomatico: il suo giornale è già nel mirino dei dalemiani per la chiara preferenza accordata a Franceschini, e per aver agitato le acque interne col famoso «lodo Scalfari». Un pubblico endorsement sarebbe stato troppo, anche perché, se poi vincesse Bersani, Repubblica dovrà ben farci i conti. A meno che il quotidiano di largo Fochetti non voglia fare da levatrice a nuove operazioni politiche, come qualcuno sospetta.
A cinque giorni dal D-Day, sussurri e grida di scissione intorbidano il clima. Quella che un tempo era l’accusa più infamante, usata in casi estremi, oggi viene rimbalzata tra i contendenti come una qualunque arma da battaglia congressuale: l’ha evocata Massimo D’Alema nel caso in cui le urne smentissero la vittoria di Bersani tra gli iscritti; ora invece ne viene attribuita l’intenzione agli ex democristiani nel caso in cui il partito finisse in mani post-comuniste, ossia dalemian-bersaniane. Naturalmente gli ex Ppi si affrettano a smentire: «Forse a qualcuno piacerebbe pure, ma resterà profondamente deluso: da casa mia non me ne vado», afferma secco Peppe Fioroni. Franceschini conferma: «Mi ha chiamato per smentire di aver mai detto che se ne potrebbe andare». Bersani però si dichiara «intimamente colpito» e pure «indignato» da ipotesi del genere.
Di Rutelli, poi, si dice da mesi che stia con un piede dentro e l’altro fuori, pronto a fare le valigie per andarsene dal «partito mai nato» cui ha dedicato il suo ultimo, sconsolato libro. L’ex leader della Margherita, però, spiega che lui non minaccia alcuna scissione, in caso di vittoria bersaniana: «Io non ho messo asticelle: ho fatto un discorso politico che non prefigura nessuna soluzione. Se vince Bersani, va visto il risultato e il modo di pronunciarsi dei protagonisti». La sua diagnosi comunque rimane pessimista: «Il Pd si sta apprestando nel modo più inadatto alla situazione difficile in cui siamo, si sta avviando a diventare un partito prevalentemente socialdemocratico alleato con una forza caudillista con quella di Di Pietro». Gli replica, dalle sponde bersaniane, il moderato Enrico Letta: «Se la nostra mozione vincerà, farà in modo che né la tentazione socialdemocratica né quella neocentrista, entrambe passatiste, deformino il profilo del Pd».
In realtà le velleità scissioniste della componente ex Ppi sono assai scarse, come dimostra anche l’abile gioco su due tavoli degli uomini di Franco Marini: ufficialmente schierato con Franceschini, l’ex presidente del Senato invoca senza posa l’appeasement post congressuale, e ha benedetto molti suoi fidi andati con Bersani.

A sentirsi a disagio, in un partito dalemiano, sarebbero altri: da Rutelli allo stesso Walter Veltroni. Ed è ai loro nomi che si fa riferimento quando si ipotizza la nascita di un nuovo «partito dell’Asinello», benedetto da Repubblica. Ma per ora è solo fantapolitica.

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