di Rino Cammilleri
La croce è un segno antichissimo, lo si trova già 3.500 anni prima di Cristo in India nella forma gammata (o uncinata, che i nazisti, significativamente, orientarono al contrario). È un simbolo solare ma anche di vittoria e redenzione per l’intero cosmo. La sua forma quadrata (la croce greca ha i bracci uguali) faceva ritenere a San Gregorio Nisseno che tutta la creazione è sostenuta dalla potenza divina. Anche San Girolamo rammentava l’antichissima tradizione della croce cosmica. Per gli antichi il mondo aveva forma quadrata e il quattro era il numero del cosmo.
Per i Maya l’universo era formato da due piramidi contrapposte che poggiavano sulla terra, quadrata, ai cui estremi quattro giganti reggevano il cielo. Per gli antichi pellerossa la croce era il simbolo della caverna primordiale da cui uscivano i quattro venti. Nella Bibbia, l’«albero della vita» che sorgeva al centro dell’Eden (Gen 2,9) era circondato da quattro fiumi. Intendiamoci, gli antichi sapevano bene che, geograficamente, la terra era sferica (Aristarco di Samo ne aveva misurato il raggio fin dal VI secolo a.C.). Ma il simbolo è un’altra cosa. Per gli antichi ebrei il segno di Ezechiele, che distingueva i fedeli dagli infedeli, era il taw - l’ultima lettera del loro alfabeto - che simboleggiava anche la fine della vita. Mosè nel deserto fece innalzare un palo a forma di «T» con sopra un serpente di bronzo (Num 21,4): a chi era stato morso da serpenti bastava guardarlo per guarire. Lo ricordò Gesù stesso (Gv 3,14): «Come Mosè nel deserto innalzò il serpente, così il Figlio dell’Uomo deve essere innalzato». La forma «T» o tau greca era una delle tante della croce. Il filosofo Giustino commentava Gv 3,14 ricordando il Timeo di Platone, nel quale si dice che l’«anima del mondo» è impressa nell’universo in forma di «X» (croce decussata o di S. Andrea). Per i ben più antichi pitagorici era lo schema fondamentale imposto dal Logos al cosmo. Infatti i due grandi cerchi del cielo, l’equatore e l’eclittica, si intersecano formando una «X», una croce cosmica. Mosè, per vincere gli Amaleciti, doveva pregare a braccia aperte (cioè, in forma di croce): gliele sorreggevano perché, quando le abbassava per la stanchezza, gli ebrei perdevano. E Giosuè (Joshua, Gesù) vinse grazie alla croce formata da Mosè. Per questo San Paolo diceva che ogni cosa era stata predisposta da Dio affinché il mondo riconoscesse il Messia quando fosse giunta «la pienezza del tempo».
Gli ebrei, per salvarsi dall’angelo sterminatore dei primogeniti d’Egitto dovettero segnare con un taw di sangue d’agnello stipiti e architravi (figure della croce). E consumare l’agnello cotto su due legni incrociati, uno dalla testa alle zampe posteriori e uno di traverso su quelle anteriori. Il filosofo pagano Celso scherniva i cristiani perché adoravano un patibolo ma Origene gli intimò (Contra Celsum) di non fare il finto tonto, perché il significato di quel simbolo era noto a tutti. Forse che gli antichi egizi non veneravano l’Ankh, la croce con l’occhiello in cima, simbolo di vita? L’Ankh o segno di Thanit era indicata anche con i geroglifici che rappresentavano l’acqua e la placenta, i quali significavano «vita» e «sarcofago». Cioè, la vita dopo la morte. Quel segno era diffusissimo anche in Siria, Fenicia, Anatolia. Durante i lavori di demolizione del tempio di Serapide ad Alessandria, l’Ankh spuntò dappertutto sulle macerie. Sia i pagani che i cristiani lo interpretarono unanimi come «la vita che deve venire». Molti pagani si convertirono al vedere il trionfo della croce mentre si demoliva un tempio pagano. E i cristiani cominciarono a usare l’Ankh. Tutto questo per noi, oggi, ha poco senso, ma per gli antichi i simboli e i fatti simbolici a essi legati erano importantissimi. Anche l’ascia bipenne era un simbolo di croce. I mistici pitagorici la usavano come emblema. Accompagnava le immagini di Ermes Cilleno, che guidava le anime nell’oltretomba. Gli Esseni, scuola religiosa ebraica contemporanea di Cristo, ne portavano una piccola alla cintura come segno di purezza. Diceva Gilbert K. Chesterton: «La croce è il solo segno che possa estendere le sue braccia senza limiti e senza per questo cambiare forma». Lo sapevano bene gli antichi, per i quali il quattro era il numero dell’uomo e del creato; esso indicava la totalità perché quattro erano i bracci della croce, le stagioni, i punti cardinali, i venti, gli elementi. Quattro i custodi del trono di Jahvé per gli ebrei e quattro gli Evangelisti per i cristiani. I multipli di quattro sono numeri simbolici che ritroviamo in tutte le tradizioni. Se quattro è il numero dell’Uomo e tre (Trinità) quello di Dio (e non solo nel cristianesimo), ecco il sette, numero di Cristo, Dio e Uomo. Insomma, la croce era conosciutissima nell’antichità come simbolo positivo e totalizzante, e non è vero che solo dopo Costantino fu adoperata dai cristiani. Fin dai primissimi tempi i cristiani portarono quel segno sugli abiti e talvolta addirittura tatuato in fronte (ancora oggi lo fanno alcune donne etiopi).
Costantino vide il famoso segno nel cielo non alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio ma fin dal 310, mentre era in marcia verso le Gallie. E quel che vide non era una croce ma il chi greco («X») attraversato verticalmente da un iota («I»). Ciò che fece apporre sui labari, sugli elmi e sugli scudi, su suggerimento di Eusebio di Cesarea (o Osio di Cordova) era il monogramma chi-rho (la «X») sormontata da una «P»), iniziale di Cristo, perché meno si prestava a essere confuso con la stella a sei o a otto punte pagana. I legionari, anche pagani, lo accettarono tranquillamente, in quanto si trattava di lettere già usate come iniziali di nomi. La croce-patibolo fu introdotta dai persiani, perché il giustiziato non toccasse terra (sacra a Ormuzd).
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