Mi chiedevo due giorni fa, ascoltando in Parlamento l'intervento di un grillino enfio di retorica nel cercare l'applauso dei suoi e di deputati democratici desiderosi di risolvere le loro contraddizioni nell'imminenza del giorno della Liberazione: «cosa ne sanno i ragazzi, questi che ho intorno, di una chiesa vuota, della desolazione dei musei, di tanta bellezza reclusa e preclusa ai nostri occhi e al nostro cuore?». Neppure la devozione e la pietà sono concessi. Chiuse le chiese, chiusi i cimiteri, come se si potesse trasmettere il contagio ai morti o prenderlo da loro, come se una preghiera davanti a una cappella, nell'aria mite di un cimitero in primavera, rappresentasse un pericolo, come se posare un fiore sulla tomba dei nostri morti fosse una minaccia. Penso a mia sorella che non può, come faceva ogni domenica, andare a trovare i miei genitori nel cimitero di Stienta. Dobbiamo favorire in ogni modo la distanza sociale, separare i genitori dai figli, i fratelli dalle sorelle, gli amati dagli amanti, i vivi dai morti.
Altro che Liberazione! Questa è una insensata prepotenza, e l'avverti quando entri in una chiesa da troppi giorni chiusa, magari un monumento visitato per parlare con Dio nel suo tempio o anche per vederne l'architettura, le opere d'arte, un mondo solitario di immagini dense di vita e di storia. Una chiesa aperta è una festa per gli occhi e per l'anima. Nel luogo per cui furono create, le opere ci parlano; ma una chiesa forzatamente chiusa per giorni e giorni, nel deserto delle strade, delle piazze, di una città o di un paese, nega il suo senso, la sua ragione: è un luogo di morte.
Abbiamo ignorato e scavalcato la resurrezione, abbiamo perduto, con la Pasqua, valori spirituali e, con il 25 aprile, valori civili. Abbiamo scelto la paura rispetto alla speranza, la solitudine rispetto all'amore. A quei giovani fanatici occorre ricordare che ecclesia vuol dire «comunità», comunità dei credenti: questo è la Chiesa. Più niente oggi, vuoto e silenzio; nessuno partecipa, nessuno ha diritti, nessuno li rivendica. La salute è più importante della libertà. E sia. Ma non con metodi irragionevoli, e non proibendo diritti elementari. Quando tutto sarà finito, se non saremo definitivamente piegati, ci si chiederà com'è stato possibile, come si è accettato di non camminare in un bosco, di non passeggiare in una strada vuota, di non correre su una spiaggia, come tutto sia stato rovesciato, pensando che, per difendersi dal contagio, occorresse obbedire a ordini insensati. Tra questi, non andare in chiesa.
Ho sentito fortemente questa ferita tornando, dopo una riunione a Sutri per organizzare la morta festa della Liberazione, alla basilica romanica di Sant'Elia a Castel Sant'Elia, aperta con un sinistro rumore di catene e catenacci, grazie alla complicità del sindaco Vincenzo Girolami che sente quel monumento come parte essenziale della sua vita, tanto da averlo studiato in un libro dal titolo eloquente: Le vibrazioni dell'anima. Chi non è stato, alle luci dell'alba o sul far della sera, in questo luogo più di ogni altro remoto, fuori del paese, sotto l'antico borgo, non sa cosa è il sacro. La chiesa, posata placidamente su un pianoro, nella grande ansa che si apre tra lo scoglio di Sant'Anna e il ciglione di San Michele, al centro della Valle Suppentonia, in provincia di Viterbo, è come una apparizione. Qui lo spirito cristiano si impone sulle vestigia pagane, perché il monaco benedettino Elia, cui si lega la denominazione della chiesa e se ne attribuisce la fondazione, la volle sul tempio dedicato alla dea Diana. La prima fondazione è tra l'VIII e il IX secolo, l'attuale costruzione è dell'XI secolo. Sobria all'esterno, nel tufo, con l'emergenza dei bianchi portali marmorei a motivi vegetali e zoomorfi, all'interno Sant'Elia è gloriosa come un tempio classico, con le potenti colonne di marmo cipollino verde, e gli animati capitelli fitomorfi. Stando in quello spazio ci si sente più grandi, in armonia con una storia cui siamo inadeguati. L'impianto planimetrico della chiesa, a tre navate incrociate con il transetto, appare contenuto in un rettangolo sghembo. Girolami osserva che «il significato formale sta nel richiamo simbolico alla figura di Cristo sulla croce che, morendo, appare con il capo inclinato». Non so; ma è vero che il percorso verso il presbiterio è accompagnato dalla mirabile traccia del pavimento cosmatesco, composto con tondi intrecciati di porfido inglobati in rettangoli e uniti tra loro da spirali in minuti tasselli.
Il disegno ti conduce verso il ciborio dove il mosaico si espande proprio come la testata di una croce. Sicuramente l'architetto ha pensato alla unità decorativa dei motivi astratti che si ritrovano anche nelle lastre del pluteo, una meravigliosa macchina geometrica . Girolami insegue i significati simbolici negli intrecci floreali e vegetali, a confermare l'intuizione di Joseph Gantner: «al di sopra dello spettatore terrestre vi è sempre e comunque il contemplatore celeste. L'arte è destinata, più che alla nostra meraviglia, allo sguardo degli angeli, all'occhio di Dio. Pur essendo visibile, è rivolta all'invisibile». È questa dimensione spirituale che, nella integrità di Sant'Elia, si avverte più che altrove.
Prima è integrità nella dimensione numinosa e senza tempo del paesaggio; poi lo è nella spazialità architettonica che ci trasporta fuori dal presente; e poi nel destino che ha voluto, come raramente accade, che, poco lontano dal santuario di Santa Maria «ad rupes», conservati come le pietre, intatti nella loro fragile materia, vi siano gli originali paramenti sacri per i ministri del culto: pianete, camici, tunicelle, mitre, sandali pontificali, stoffe copte, e anche cofanetti e pastorali, che costituiscono una delle più rilevanti collezioni di epoca medioevale, tra l'XI secolo e la metà del XIII. Indumenti prodotti per la maggior parte nella fase benedettina della basilica: gli abiti più antichi appartenuti ai santi abati Anastasio e Nonnoso sepolti nella cripta. La meraviglia di queste stoffe si rispecchia, per affinità formale, nella parte più imprevedibile ed emozionante della basilica: gli affreschi del transetto. Nella fascia superiore dell'abside si legge, in latino, con riferimento al Cristo: «voi che entrate, guardate me per primo».
È inevitabile. Sulla parete laterale vediamo gli episodi dell'Apocalisse di San Giovanni, con una vivacità semplice e sintetica che annuncia l'elaborazione di un sensibilissimo artista contemporaneo, che forse qui non era mai stato: Lorenzo Bonechi. Si vedono, su tre fasce, gli angeli che trattengono i quattro venti; l'angelo che suona la tromba al momento della rottura del settimo sigillo; i cavalieri diabolici che calpestano l'umanità. Avviandoci verso l'abside si assiste alla processione, in doppia fila, dei ventiquattro vecchi dell'apocalisse che sollevano coppe d'oro colme di profumi. Potentissima è la decorazione centrale dell'abside che, nell'affresco leggero, con colori pastello, in una luminosità soave, imita il mosaico. Nel catino, Cristo tra Sant'Elia, Paolo, Pietro e Mosè, sopra i dodici agnelli, uscenti dalle città di Gerusalemme e di Betlemme. Sotto, vicini a noi, con abiti preziosi, vergini e martiri portano corone, guidati da due arcangeli. Decorazione sublime che, mentre richiama i mosaici bizantini, apre idealmente all'eleganza sontuosa di Klimt e dei suoi derivati, come Galileo Chini e Vittorio Zecchin. Questo richiamo, in più parti presente, all'arte contemporanea, ci dà la misura della originalità e del prestigio dell'invenzione di una famiglia di artisti che, agli inizi del Dodicesimo secolo, hanno l'orgoglio di firmarsi, sotto la figura di Cristo, con i loro nomi: Giovanni, Stefano e Nicolò.
Tra i primi pittori del Medioevo di cui conosciamo il
nome. Essi, attraverso le pitture, sono davanti a noi come persone distinte, in una sorprendente attualità, parte viva nella vita di un monumento da cui si esce lasciando, nello spazio intatto, una parte della nostra anima.
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