GerusalemmeSe questo non è un Paese perseguitato da una forma di odio e di terrorismo senza precedenti, allora nessuno lo è mai stato. Eppure nessuna organizzazione per i diritti umani, nessun governo si è affacciato per dire ai governanti di Israele che il dilemma che devono risolvere in queste ore è terribile, e a sostenerlo nel più nobile e anche folle fra tutti gli antagonismi storici e filosofici, quello fra la vita e la morte, fra il bene e il male. Ieri un popolo intero intorno allufficio del primo ministro Benjamin Netanyhau circondato da sagome a grandezza naturale di Gilad Shalit, ostaggio di Hamas da più di tre anni, ha ingoiato le lacrime, diviso fra opinioni diverse.
Il gabinetto del premier, formato da sei membri più Netanyahu, si è riunito per due giorni consecutivi e ieri ha rinnovato gli incontri ancora e ancora fino a tardi per la discussione definitiva su uno scambio che sembra metafisico e assurdo. Hamas vuole un numero esorbitante di assassini e di terroristi, intorno a mille, in cambio del ragazzo rapito lungo il confine di Gaza mentre era di ronda. I palestinesi di Hamas minacciano dicendo che la trattativa è finita e che i genitori di Gilad non lo vedranno mai più se Israele non accetterà di liberare una quantità di assassini che, come le statistiche degli scambi precedenti garantiscono, torneranno a uccidere nelle strade, sugli autobus, nei ristoranti di Israele. Durante la Guerra dei Sei Giorni, Yitzhak Rabin sovrastato dalla responsabilità, si rinchiuse a casa per molte ore; Netanyahu in mezzo a una giornata come quella di ieri, in cui ha rivisto oltre ai suoi sei ministri anche i genitori di Shalit, il capo di Stato Maggiore Gabi Ashkenazi, il capo del Mossad, Meir Dagan e quello dei servizi segreti interni, lo Shin Beth, Yuval Diskin è stato a casa in preda a un malessere per un paio dore. La responsabilità che grava su di lui è fatale: i suoi ministro sono divisi tre contro tre. Il responsabile degli Esteri Avigdor Liebermann, quello degli Affari strategici Moshe Yaalon, Benny Begin, ministro senza portafoglio, pesante per il nome e la rettitudine morale, si oppongono. Ehud Barak, alla Difesa, Eli Ishai, Interno, e Dan Meridor, Servizi segreti, sono a favore. Ci possiamo immaginare in quale stato di concentrazione e di pressione sia Bibi Netanyahu, il fratello del grande Yoni ucciso mentre capeggiava la spedizione di Entebbe, nel 1976; luomo che fra i primi capì lindefettibilità del terrorismo islamico: egli sta forse per caricare fuori del carcere, sugli autobus che li porteranno nella gioia sfrenata dei palestinesi a casa, i militanti armati di Hamas che hanno ucciso migliaia di suoi compatrioti. Il suo dilemma comprende una quantità di punti delicati, fra tutti il più importante quello del limite: quando si tratta di salvare la vita di un soldato, uno dei ragazzi che a diciotto anni vanno per tre nellesercito, spesso in guerra, per difendere una società e famiglie che pretendono severamente che lo Stato garantisca il suo impegno a salvare la vita dei suoi fino in fondo. Ma che conta tanti genitori già colpiti dal terrorismo che non sopportano che gli assassini dei loro cari siano rimessi in libertà.
Laltro grande dilemma riguarda il futuro dei palestinesi: per Abu Mazen, unico interlocutore moderato, la vittoria di Hamas sarebbe un colpo fatale, e Israele si troverebbe di fronte, rafforzato, il nemico foraggiato dallIran e che ha giurato la sua morte.
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