Nella mappa della letteratura il più giovane è Eco

Nella mappa della letteratura il più giovane è Eco

La cosa più bella di libri come 501 grandi scrittori (a cura di Julian Patrick, professore di Letteratura comparata in Canada, Atlante, pagg. 640, euro 29) è l’effetto album di figurine. Chi c’è, chi manca in questo elenco di autori «imprescindibili»? Quali italiani sono inclusi, quali esclusi?

Iniziamo dal passato remoto: i secoli d’oro della nostra letteratura, quelli in cui dettava la linea al resto dell’Occidente, sono infatti maltrattati dai curatori. Ci sono Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Tasso. Siamo al minimo sindacale. Clamorosa l’assenza di Castiglione (il Cortegiano fu un best seller ante litteram in tutta Europa) e di Guicciardini (alle radici delle scienze politiche, fondamentale): gente solida, qualsiasi commissario tecnico-letterario li avrebbe convocati, altro che l’evanescente Cassano. Avanzando nei secoli, incomprensibile l’assenza di Leopardi, un vero talento capito ormai da tutti (Nietzsche ha raccolto le sue briciole, il giudizio è di Cardarelli ma sottoscritto da molti). Ma in questo caso grava l’incredibile carenza di traduzioni in inglese delle opere del geniale recanatese, un biglietto da visita che qualsiasi nazione, tranne l’Italia, si pregerebbe di sventolare sotto i nasi stranieri. Anche Manzoni, un gigante, è lasciato a casa come una riserva qualsiasi. Per fortuna c’è Svevo, il quale però si deve accontentare di mezza paginetta come un pisquano qualsiasi.

Il gioco si fa più divertente addentrandosi nel Novecento. Il volume qui sembra rispecchiare le sistematizzazioni tipiche delle antologie scolastiche nate da una certa «temperie», quella che dal dopoguerra arriva più o meno agli anni Sessanta. Ci sono i venerati maestri di un tempo, Pavese, Pasolini, Primo Levi, Moravia, Calvino, Dario Fo e Umberto Eco. Poco altro. Due o tre osservazioni: in effetti i valori sembrano essersi ribaltati. Arbasino, assente, è celebrato da tutti. Fenoglio, assente, è celebrato da tutti. Carlo Emilio Gadda, assente, è celebrato da tutti. Mentre su Moravia, Calvino e Pasolini non c’è più giudizio di unanime approvazione. Su Dario Fo, definito «ridicolo» da Harold Bloom, il maggior critico vivente, sembra prevalere un biasimo piuttosto netto. A parte Montale, mancano tutti i poeti: da Ungaretti all’ultimo Caproni passando per Penna e Saba.

A parte questo, ciò che colpisce veramente è l’età della mascotte della squadra italiana, Umberto Eco, un giovinetto nato nel 1932. Autore significativo, non c’è il minimo dubbio, se non altro perché Il nome della rosa (1980) fu il primo, e per ora unico, bestseller mondiale all’italiana. Dopo il 1932, stando al volume di Patrick, che certo non è da prendersi come oro colato, nel Belpaese non è nato autore degno di nota. E dire che le altre nazioni, europee e non, si difendono alla grande. Gli Stati Uniti sfoggiano molti assi (Roth e McCarthy, entrambi classe 1933, e poi De Lillo, Pynchon, Thompson, Carver, Auster, Oates, Ellroy, Ellis), l’Inghilterra anche (Ballard, Chatwin, Amis, McEwan), la Germania limita i danni (Sebald), la Francia pure (Houellebecq). I Paesi extraeuropei si fanno sotto. Ci sono nigeriani, indiani, giapponesi, cileni, peruviani etc. etc.

L’Italia invece scompare dalla mappa, e c’è da chiedersi se sia un errore di prospettiva, il segno di mancanza di traduzioni o un ritratto (anche involontariamente) perfetto della realtà. Si direbbe probabile l’ultima, perché sfogliando queste pagine ci si imbatte in moltissimi libri piuttosto recenti che pongono numerose domande al lettore, sintetizzabili in questa: quanto sarei diverso se non avessi letto La strada (McCarthy), Patrimonio (Roth), Le particelle elementari (Houellebecq), Meno di zero (Ellis), Rumore bianco (DeLillo) o Koba il terribile (Amis)? Risposta: molto diverso.

E come mai, se si fruga nella memoria, non si trova un titolo di un peso analogo nella produzione dei «giovani» scrittori italiani? Chi sono i nostri Ellis? I pur ottimi, ma derivativi, Culicchia e Ammaniti? Faletti, celebrato dal magazine del Corriere della Sera come il più grande autore dei nostri tempi? Perché mentre sulle nostre sponde si discute di noir, post noir, new italian epic e altre fumisterie, altrove, senza troppo teorizzare, si scrive American Tabloid (Ellroy)? Perché mentre sulle nostre sponde si discute di fiction, faction, autofiction e altri deliri, altrove, senza troppo teorizzare, si scrivono libri belli e terribili come I miei luoghi oscuri (ancora Ellroy)?

Mentre altrove lo scrittore fa lo scrittore, e prende sul serio la sua professione, consapevole dell’esistenza del mercato senza esserne schiavo, qui da noi va di moda dire che un libro è solo un libro, che importanza ha in fondo; e se non ci credete basta sentire cosa dicono i vari Piperno e Veronesi. Un capolavoro? Perché mai scrivere un capolavoro? È fatica inutile, tempo sprecato.


Forse è inevitabile rifugiarsi nel grigiore minimalista, dopo l’abbuffata indigesta di ideologie, intellettuali organici e romanzetti più o meno impegnati. Però chi si accontenta alla fine non gode e diventa schiavo di quel mercato che magari finge di deprecare.

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