da Milano
L a danza gioiosa dei bambini, è loro il vero scudetto della ribellione. Li portano in campo con la maglia che ci ricorda di chi sono le creature, i figli dei campioni, che lo sappiano tutti. Fotografie, tanti baci e tanti abbracci mentre la gente canta pazza Inter, amala. Ma poi il gioco finisce. Crudele. Loro volevano inseguire i palloni colorati che intanto volavano sul brutto tetto di San Siro, erano affascinati da quella cascata luminosa che non era fumo, non era il solito veleno. C'era la palla, c'era l'arbitro Damato curioso come loro. Fateci giocare, prima avevamo visto divertirsi tanti ragazzini dell'Inter, adesso tocca a noi. Scusa, tesoro, ma papà torna in campo, deve lavorare.
Crudeltà del copione. Tocca alle mamme compattare il gruppo mentre la gente guarda nel cielo blu una bella luna. Non ha voglia vera di partita, ha voglia di festa, commozione, che stiano tutti in campo e quando sui tabelloni luminosi appare la fotografia di Giacinto Facchetti con il suo scudetto, ecco quello è il momento per fermare tutto, altro che rinviare alla festa più festa del 22 maggio che costerà anche cara. No, si festeggia stasera. Abbiamo trovato le maglie giuste, abbiamo sopportato l'ottusità del prefiltraggio nella giornata da dedicare soltanto agli abbracci, alla misura dei salti per sapere quanto non siamo rossoneri, al coro che rende così orgogliosa questa Inter kafkiana che adesso sente di non essere più una perdente di successo: «Senza rubare, abbiamo vinto senza rubare, adesso i campioni d'Italia siamo davvero noi e lo scudetto ci mancava, era sepolto sotto troppe carte telefoniche».
Deve essere festa per forza se gioca Recoba, prende un palo e segna un gol, se, per una volta, Javier Zanetti riposa, accontentandosi della gioia che vede negli occhi della gente, di quelli che ci rimangono male quando scoprono che il capitano è in panchina. Lui deve rifare il tagliando per la coppa Italia. Peccato che non ci sia Ibrahimovic, urla una signora che non ne può più del panino alle cipolle bruciacchiate appena scartato dal marito. Quello, Ibra, dice sempre lei, è un tipo che nelle feste fa godere, perché il suo calcio è arte, è calcio bauscia, è il figlioccio di Veleno Lorenzi anche se la casa è stata in piedi per gente come il Cambiasso. Bisognerebbe mandarla, la signora, alla misteriosa curva Prisco, nascosta fra le torri orribili, quella dove l'avvocato discute con il fantasma di Nereo Rocco e fa i dispetti a Teocoli.
Pazza Inter amala e dille grazie come fanno quelli del terzo anello sulla curva Nord. Parola semplice, grande grande. Maledetto copione, ma l'Empoli ha tutto il diritto di non sentirsi comparsa e Julio Cesar fa abbastanza per ricordare che lo scudetto non è figlio soltanto di quelli che fanno gol e lo si difende anche se chi lacrima per i miliardi da mettere nel trasloco Buffon meriterebbe il premio dell'ingratitudine.
Quello che le squadre non dicono lo cantano alla fine i tifosi, guidati col microfono da un Materazzi inebriato, e questa Inter imbandierata sente di avere intorno un popolo che adesso vorrebbe cambiare vita, accarezzare la palla come fanno Cambiasso e Cruz per il gol che esaurisce tutti i telefonini, illuminando quel prato che sembra bellissimo, come una volta, perché non ci sono zolle che ostacolano la corsa, cartacce per confondere tutto come le scarpe colorate.
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