Nella prigione dorata di un galeotto libero

La dimora dello scrittore è il suo libro-testamento inciso sulla pietra. Tra valori forti e rifiuto delle mode

Nella prigione dorata di un galeotto libero

da Capri

L'ultimo in ordine di tempo è questo Le Malaparte impossibili (Lettera ventidue, pagg. 207, euro 25), in cui Cherubino Gambardella utilizza la dimora malapartiana di Capo Massullo come fonte di ispirazione e trasformazione di altri progetti, la sua manipolazione e insieme la sua trasposizione immaginaria, una sorta di «libro verosimile sulla vita sognata di una delle più famose case del mondo». È l'approdo finale di un processo iniziato una trentina d'anni fa, quando libri fotografici (Malaparte: a house like me, di Michael McDonough) e testi critici (Casa Malaparte, di Marida Talamona; Casa Malaparte. Capri, di Gianni Pettena) cominciarono a raccontare quello che un po' per pigrizia, un po' per preconcetto, un po' per difesa corporativa, gli studiosi di architettura avevano fino ad allora celato: dietro quella costruzione c'era soltanto Malaparte, coadiuvato da un capomastro abile e capace quale Adolfo Amitrano.

«Vivo in un'isola, in una casa triste, dura, severa che mi sono costruita da me, solitaria sopra uno scoglio a picco sul mare: una casa che è lo spettro, l'immagine segreta della prigione, l'immagine della mia nostalgia», aveva scritto nella prefazione di Fughe in prigione. Non si trattava solo della reminiscenza della galera e del confino, il dramma di una libertà perduta, poi riacquistata, comunque minacciata. Quella nostalgia era qualcosa di più, investiva ciò che aveva creduto e per cui si era battuto. Come «un uccello che avesse ingoiato la propria gabbia» la casa testimoniava la sconfitta di un'idea e ciononostante la sua fedele riaffermazione. Oggi, a sessant'anni dalla sua morte, resta come il suo libro-testamento inciso sulla pietra.

Nella sua Guida inutile di Capri, Edwin Cerio consiglia ironicamente «il paesaggio che si scopre dopo Capo Malaparte, dove abita il signor Massullo». L'identificazione fra lo scrittore e la sua creazione fu totale, fin dall'inizio, ma i capresi vissero sempre l'uno e l'altra come un corpo estraneo. Comprato il terreno nel 1938, alla fine del 1942 la casa è come la vediamo adesso: solo il colore è diverso, bianco dopo un primo esperimento di rosso. Ma il rosso ritorna e si impone, definitivamente, a partire dal 1945. Fra i motivi di questa scelta c'è sicuramente la suggestione di un brano del Breviario di Capri, di Amedeo Maiuri, da Malaparte letto e più volte ricordato nelle conversazioni: «Chi sceglie per il proprio sepolcro la vetta eccelsa e scoscesa di uno scoglio, non pensa ad occultarvi una umile tomba a fossa, ma vi erige a perenne memoria, in vista del mare e dei navigli, una tomba cospicua, un mausoleo. Tale mi apparve, vari anni orsono, su di un isolotto roccioso della costa anatolica, una piramide fiammante di rosso mattone, ignoto, grandioso mausoleo romano attanagliato e saldato per l'eternità al basamento ferrigno dello scoglio». Nel suo libro, Gambardella suggerisce anche un modello greco in gesso, Casa Kyriakides, dell'architetto Georgios Kontoleon, forse visto da Malaparte ad Atene negli anni Trenta, e di stupefacente rassomiglianza.

Quello che è certo è che il colore rosso è un rimando cromatico a un'edilizia pubblica e privata che incarna una dimensione estetica e ideologica: è il rosso cupo delle case del Fascio e del Foro Mussolini, che a sua volta è il rosso cupo della romanità, delle ville di Pompei, degli affreschi e delle decorazioni, è il color terra di Siena dell'Italia barbara e premoderna, ovvero l'altra modernità, il tentativo di adattare alla tradizione il linguaggio giusto che non la neghi né la ripeta stancamente. Scegliendo quella roccia e costruendo quella casa, Malaparte elabora visivamente ciò che era andato esponendo in vent'anni d'impegno letterario, il richiamo a valori forti e ancestrali, il rifiuto delle mode straniere, la ricerca di una terza via fra liberalismo e marxismo, la rivoluzione non come restaurazione o tabula rasa, ma recupero di una visione del mondo e sua attuazione, il sogno di un fascismo immenso e rosso che sarebbe potuto essere e non fu... «Il mio fascismo me lo son creato io», scrive a Gobetti nel 1924, un po' il successivo assunto del Longanesi dell'Italiano: «Il fascismo non è bello per quello che ha in sé, ma per quello che promette». Un giorno bisognerà scrivere una storia del rapporto tra il fascismo e alcuni intellettuali, Malaparte stesso, Ansaldo, Longanesi, alla luce dello sciupio delle intelligenze più che del loro utilizzo, il passaggio dall'adesione al frondismo e poi l'abbandono, non nell'ottica greve del tornaconto o morale del tradimento, ma in quello di chi si vede ridurre gli spazi d'azione e di intervento, di chi è più avanti rispetto all'armatura ideologica e burocratica che gli si para di fronte, di chi si accorge di sprecare il proprio talento nella difesa di un sistema che non lo rappresenta e in molti casi lo mortifica. Di chi alla fine si rende conto che il suo fascismo è più fecondo di quello che, istituzionalizzandosi, si è inaridito.

«Melanconica, dura, severa. Come me». L'autoritratto di sangue e di pietra che Malaparte declina superati i quarant'anni potrebbe far sorridere. Nessuno di quegli aggettivi si addice, a prima vista, alla sua vita pubblica che fu fragorosa, sempre sopra le righe, istrionica. A volte la bellezza e l'intelligenza sono una maledizione, obbligano a portare in superficie ciò che avresti preferito restasse in profondità. A uno scrittore non si chiede la prestanza fisica, un intellettuale non si misura in termini estetici. Nell'Italia dei letterati da caffè e dei professori a stipendio, dei romanzieri in camere d'affitto, quelli come lui erano una minoranza e, tolto D'Annunzio, la cui «vita inimitabile» è però un ultimo fuoco dell'Ottocento, li ritrovavi nella letteratura popolare: i Da Verona, i Pitigrilli, dalla «classe dei colti» invidiati, ma disprezzati, non considerati. Il divismo malapartiano cui lo condannava il suo fisico e la sua baldanza aveva in sé l'elemento forte di un pensiero, il nucleo di un'ideologia e risiedeva lì la sua pericolosità. Non era uno scrittore per sartine, una firma per romanzi d'appendice con la faccia da attore dei telefoni bianchi...

Il distacco così risultava totale, e la differenza e l'ostilità erano sempre lì, pronte a coglierne il primo passo falso. Esasperando un modo d'essere, Malaparte non faceva che accentuare quella diversità, quasi a rivendicare un proprio diritto naturale: non solo, era il messaggio, vi faccio concorrenza sul vostro campo, e siete costretti a occuparvi di me, non potete liquidarmi come un fenomeno commerciale. Ma in più sono inarrivabile nella vita vera, quella che a voi sfugge, che potete avere solo di riflesso e a sprazzi: bello, amato, corteggiato, ben introdotto...

Degli scrittori suoi contemporanei, quello che più gli somiglia non è un italiano, è un francese, Pierre Drieu La Rochelle. Il tema della decadenza che ossessionerà Drieu per tutta la sua opera è quello che il Malaparte bellico farà proprio. Il decomporsi di una civiltà e l'impossibilità di porvi un freno, l'avere sognato un ritorno a valori antichi, elementari, come antidoto, il doverne constare il fallimento, il prendere atto della fine di un mondo.

Quegli aggettivi prima citati, allora, sono meno incongrui di quanto possano apparire, perché la severità e la durezza affondano in un'esperienza bellica che lo segnò anche fisicamente, e che resta un tema costante. È la durezza e la severità di chi è abituato a far da solo, conosce il rischio, è disposto a pagarne un prezzo.

E la malinconia è il frutto agrodolce che il sentirsi diverso, l'orgogliosamente sentirsi diverso, genera attraverso la solitudine: più esternamente e esteriormente ci si concede, più intensamente ci si barrica a difesa e a salvaguardia di se stessi...

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