Economia

Nelle Borse sale la febbre da inflazione

da Milano

Difficile da digerire, quel dato. E infatti, nonostante la pausa di riflessione imposta dal fine settimana, ieri i mercati finanziari non avevano ancora metabolizzato il picco raggiunto in novembre dai prezzi al consumo Usa. Una fiammata del 4,2% su base annua che, se sarà confermata anche in dicembre, collocherà l’inflazione al livello più alto degli ultimi 17 anni. Costringendo forse la Fed a rivedere le proprie strategie, tese a preservare l’economia dai rischi di recessione.
È proprio su questo verosimile ribaltamento degli scenari di politica monetaria, e in particolare sul venir meno delle certezze di un nuovo taglio dei tassi a breve, che ieri le Borse sono pesantemente arretrate. Partita dall’Estremo Oriente per il gioco dei fusi orari (con perdite da un minimo dell’1,7% a Tokio fino a un massimo del 3,54% a Taiwan), l’ondata delle vendite si è poi scaricata sull’Europa, dove 150 miliardi di euro di capitalizzazione sono andati in fumo, come risultato del meno 1,72% di Londra e Milano e il ribasso dell’1,61% di Parigi, da sommare ai ribassi di Francoforte (meno 1,55%) e Zurigo (meno 1,52%). Il punto terminale è stato, come sempre, Wall Street (meno 1,29% il Dow Jones, meno 2,32% il Nasdaq), la più coinvolta dalle possibili ripercussioni della corsa dei prezzi americani, la più esposta agli effetti del contagio subprime e alla crisi del credito.
Dopo aver accolto con scetticismo, la scorsa settimana, il piano concertato dalle principali banche centrali mondiali contro la crisi di liquidità (che secondo l’ad di Unicredit, Alessandro Profumo, finirà entro marzo-aprile), i listini americani sono finiti sotto la doccia fredda imposta dall’andamento fuori controllo dei prezzi. Anche se il comunicato diffuso dalla Fed al termine dell’ultima riunione conteneva toni meno decisi sulla volontà di stroncare preventivamente gli effetti recessivi, le chance attribuite a un ulteriore taglio del costo del denaro in gennaio erano praticamente rimaste intatte. Ora non più, con i future sui Fed Fund che assegnano il 74% di probabilità a una riduzione il mese prossimo.
Tutto sembra insomma diventare complicato. E pericoloso, soprattutto. Almeno a dar ascolto all’ex presidente della Fed, Alan Greenspan, secondo il quale i pericoli di uno scivolamento nella stagflazione (alta inflazione unita a crescita stagnante) sono passati dal 30 al 50%. Considerato il credito di cui gode il Maestro a Wall Street, difficile ignorarne l’allarme.
Gli effetti del cambio di registro sulle aspettative della politica monetaria Usa si vedono peraltro anche sul mercato valutario, dove l’euro è stato ricacciato ieri sotto quota 1,44 (1,4331 dollari il minimo di seduta), complice la debole performance dell’indice manifatturiero dell’euro zona (53,3 punti in dicembre) e il ritocco verso il basso delle stime di crescita per la Germania nel 2008 e nel 2009. Il dollaro ha invece beneficiato dell’inatteso aumento dei flussi di capitale, saliti in ottobre a 97,8 miliardi di dollari.

Ma il perdurante deprezzamento del biglietto verde è ben visibile nel calo oltre le previsioni del deficit delle partite correnti nel terzo trimestre, ridottosi a 178,5 miliardi di dollari.

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