nostro inviato a Parigi
Lalta diplomazia motoristica era palpabile. Da una parte patron Briatore a precisare con dovizia di particolari il ruolo di Nelsinho Piquet, dallaltra Fernando Alonso a far lo stesso con ampio utilizzo di precisazioni non richieste. In ultimo, lui, il diretto interessato, il giovane belloccio figlio darte (suo papà è Nelson, tre volte iridato negli anni Ottanta) che al contrario degli altri due cercava di rispondere nel modo più vago, astratto e generico possibile. Esempio: «Ma no, vedrete, non sarà come con Hamilton, perché Fernando si era trovato in un team inglese, con un pilota inglese gestito da un manager inglese. Qui è diverso, qui è in una squadra francese con cui ha vinto tanto e che lo conosce perfettamente e ascolta le sue indicazioni. Io devo pensare ad imparare e solo quando avrò dimostrato di aver appreso molto, allora, potrò aspettarmi che la squadra dia retta anche a me...». Quindi, quasi fosse un piccolo moto dorgoglio, quel flebile accenno: «I miei obiettivi? Se la macchina è da podio, vorrei riuscire a salirci, se è da vittoria vorrei vincere». Più che un proposito sa di gol della bandiera.
Perché sono frasi pronunciate quasi sottovoce, con timidezza, caratteristica di cui era totalmente sprovvisto suo padre e si narra anche lo stesso Nelsinho. Timidezza, riserbo, chiamiamolo profilo basso che il ragazzo ha pensato di tenere dopo aver capito che la Renault di patron Briatore è tutta, giustamente, per Alonso. «Se mi attendo strane sorprese da Nelsinho? Tipo Hamilton lo scorso anno con Fernando? Le sorprese, in F1, ci possono sempre essere spiega il gran capo italiano -, però qui è chiaro che Piquet è giovane e deve imparare molto. Però si trova nella situazione ideale di poter apprendere senza stress accanto a un grande campione».
Quindi Alonso, giusto per essere chiari: «Sento che lo sviluppo del team è tutto sulle mie spalle, questo mi piace, mi motiva...
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