Nessuno sa qual è il reato della P3 A parte Saviano...

Carissimo Granzotto, fermo restano che il comportamento di parte dello stato maggiore berlusconiano lascia alquanto a desiderare per disinvoltura e indifferenza nei confronti dell’etica liberale alla Luigi Einaudi, fatta di probità, rigore, rispetto e correttezza, lei ha capito di quale reato si sono resi colpevoli gli appartenenti alla sedicente «loggia» battezzata da «Repubblica» P3?
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Nessuno l’ha capito, caro Pesce. Nemmeno la magistratura che per ora si attacca alla Legge Anselmi (costituzione di associazione segreta), ma è una toppa, perché è chiaro come il sole che non può reggere (non resse nemmeno per Licio Gelli, che pure era l’obbiettivo di quella legge: il venerabile maestro è ai domiciliari per la condanna relativa al crack dell’Ambrosiano, non per la P2). L'imbarazzo degli inquirenti è stato del resto ben illustrato dal Procuratore Piero Grasso il quale ha ammesso che lo scambio di favori «non risulta nei nostri modelli giuridici e in particolare nel modello di reato di corruzione». Insistendo poi nel dire che «il problema è tutto nella difficoltà di individuare una figura di reato che si percepisce come qualcosa di illecito, ma è difficile da perseguire da un punto di vista penale».
Siamo dunque a questo punto, caro Pesce: il reato non c’è, al massimo lo si percepisce. Un po’ poco per l’aula di un tribunale. Chi invece ha capito tutto è Roberto Saviano. Saviano è come il vino cileno: non malvagio, con un buon rapporto costi-benefici, ma senza nerbo, senza stoffa. Leggerlo, dunque, è un’impresa perché la prosa così piatta, così enervata induce inesorabilmente all’abbiocco (termine gergale: sta per «colpo di sonno»). Però era di sabato, me ne stavo beato all’ombra dei platani e mi ero appena confezionato un Bombay, beveraggio che mi diede la forza di andare fino in fondo alla lenzuolata di due pagine su Repubblica senza che lo sbadiglio mi squinternasse la mascella. Cosa ha capito, dunque, Saviano? Ha capito che la cosca, la loggia, la P3 insomma, altro non è che un’arma di distruzione di massa - e come vedremo in odore di mafia - a disposizione del potere (il Berlusca, ovvio) per delegittimare l’avversario. Scrive, l’oracolo: «Se ti poni contro certi poteri questi risponderanno con un’unica strategia: delegittimare». La qual cosa significa «renderlo nudo», l’avversario, «raccontando storie su di lui, descrivendo comportamenti intimi per metterlo in difficoltà» rendendolo agli occhi dell’opinione pubblica «non credibile». Conclude il Saviano: «Un vecchio boss della Nuova Famiglia, Pasquale Galasso, alla domanda: “Perché non uccidete magistrati?” rispose chiaramente: “Signor giudice noi preferiamo delegittimarli”».
Questa è bella: raccontare storie intime su di lui, descriverne i comportamenti intimi per delegittimarlo? Ovvero per sputtanarlo (termine non gergale relativo all’uso giornalistico delle intercettazioni)? L’ottimo Saviano deve aver perso la trebisonda perché con civile petto in fuori denuncia una pratica mafiogena alla quale da una quindicina d’anni fa ricorso proprio il giornale sul quale scrive, altro che P3.

Che niente niente non se n’è accorto? O ci marcia? Chi può dirlo? Comunque noi, che gli vogliamo bene, gli consigliamo, se proprio vuole stanare colui che ha preso il posto dell’ormai desueto Grande Vecchio vestendo i panni del Grande Delegittimatore, di non arrabattarsi tanto: si guardi piuttosto intorno.

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