Care amiche della sinistra,
so che non è facile porre riparo a molti anni di silenzio su una questione cruciale per la nostra società come quella della violenza sulle donne dell'immigrazione. Tanto più apprezzo, e lo dico sinceramente, lo sforzo e la mobilitazione in queste ore di molte di voi, l'ammissione che c'è stata sul caso di Hina Salem e per tanti altri casi analoghi «un'indifferenza forse politicamente corretta ma che occorre combattere». Tuttavia, lasciatemelo dire, se davvero vogliamo costruire insieme, come chiedo da tempo, una pagina nuova nel percorso difficile e complesso dell'integrazione nel nostro Paese, alcune cose sento il dovere di precisarle. Innanzi tutto: l'indifferenza che vi rimprovero da tempo e di cui oggi volete liberarvi non è «politicamente corretta». Non lo è perché è sbagliato giustificarla con una sorta di malinteso rispetto per le altre culture. L'uccisione di Hina non è paragonabile ai delitti d'onore della nostra storia passata, si tratta semmai di un omicidio rituale e la differenza è profonda perché alla sua radice c'è qualcosa di ben più grave e pericoloso di un semplice disagio culturale. C'è una barbarie perpetrata nel segno del fondamentalismo islamico e della sua visione della religione, delle donne, della società e del mondo. Se non si capisce questo, temo che la vostra mobilitazione di oggi produrrà non molto di più degli stessi deludenti effetti di ieri. Che lo vogliamo o no, l'infinita serie di sopraffazioni e di brutalità sulle nostre immigrate è legata a filo doppio alla questione delle moschee e dei sedicenti ambasciatori di Dio che le infestano, predicando la sottomissione femminile e la punizione per chi tra loro abbandona le regole della sharia per coltivare un fragile sogno di dignità e di libertà. È legata alla questione delle scuole coraniche in Italia, disseminate un po' ovunque e affollate di opuscoli che distillano nelle nuove generazioni di immigrati gli stessi insegnamenti. È legata a filo doppio persino all'ossessione del velo, imposto e sfruttato come un simbolo religioso proprio per suggellare l'inferiorità della donna. E l'inferiorità, anzi la schiavitù, della donna, con tutto ciò che ne consegue, è un pilastro irrinunciabile nella concezione fondamentalista della grande comunità islamica che si vuole far nascere, nei Paesi europei, tenendola ben lontana dai valori fondamentali di una democrazia. Questa è la vera posta in gioco nel processo ai responsabili della morte di Hina. Dice bene Barbara Pollastrini: «Oggi è la libertà femminile al centro dello scontro di civiltà». Dice altrettanto bene Paola Binetti quando parla della difficoltà della sinistra a rispondere alla chiamata di responsabilità che ci arriva dalle aule del tribunale di Brescia, smarrita com'è nelle dispute sulle quote in rosa, e prova a interrogarsi con grande onestà sui reali motivi che fanno precipitare molte famiglie islamiche che ci vivono accanto nella spirale della violenza sulle loro figlie o sulle loro mogli.
Ora però, care amiche, vi aspetta il compito non facile di dare un seguito concreto alle giuste intenzioni di questi momenti. Mi sovvengono le battaglie di un tempo di Emma Bonino. E il compito ancor meno facile di distinguere le vostre posizioni da quelle di chi non vuole sentire ragioni e continua a confondere la condizione delle donne italiane e quella delle immigrate, le ragioni della violenza sulle prime e quelle degli abusi sulle altre. Di una sinistra massimalista che preferisce bollare come islamofobo, razzista o affetto da protagonismo mediatico chiunque la pensi in modo diverso, trovando alleati di comodo anche in qualche esponente del mio stesso partito. Di un femminismo di Stato che accorre in massa a difendere le due Simone e Giuliana Sgrena ma non una ragazza pakistana di ventidue anni, perché, cito liberamente Pierluigi Battista, in fondo non la considera «parte di noi», così come non considera «uno di noi» il sacerdote cristiano sequestrato nelle Filippine.
Daniela Santanchè
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