Nigeria, strage per salvare gli ostaggi: italiano ferito

La Farnesina rassicura sulle condizioni di Pietro Caputo: il dipendente Eni non è in pericolo di vita

Guido Mattioni

Sale il «costo» del petrolio nigeriano: quattro morti e un ferito, l’italiano Pietro Caputo, un dipendente della Saipem che fortunatamente non versa in pericolo di vita. È questo il bilancio dell’ennesimo attacco a impianti dell’industria petrolifera internazionale condotto, pare anche questa volta, da miliziani dell’etnia Ijaw, un gruppo indigeno (14 milioni di persone) che chiede la definizione di nuovi accordi con le società multinazionali di estrazione per ottenere in cambio maggiori servizi sociali.
Il commando è arrivato nel buio della notte, tra le 2 e le 4 del mattino ora locale. Invisibile, su lance a motore che solcavano l’acqua maleodorante, striata di scie iridescenti di idrocarburi, al largo dello sterminato delta del fiume Niger. Un assalto, l’ennesimo, a uno dei simboli petroliferi. Un assalto come ce ne erano stati altri, in Nigeria, da febbraio a ieri. Un assalto ancora una volta per rapire e chiedere un riscatto, in soldi o anche «politico». Ma per la prima volta, dopo i blitz contro gli accampamenti, dopo quelli alle piattaforme di estrazione off shore e ai furgoni, si è trattato di un arrembaggio. Sì a una nave. Ed è finito male. Quattro morti, appunto: un ostaggio (cittadino britannico), due sequestratori e un soldato nigeriano. Oltre all’italiano Caputo, rimasto ferito nel tiro incrociato tra i miliziani e un commando della Marina militare nigeriana che era intervenuto per liberare i sette uomini rapiti: oltre a Caputo e al cittadino inglese rimasto poi ucciso dai colpi d’arma da fuoco, del gruppo di prigionieri facevano parte anche un filippino, due finlandesi, un polacco e un rumeno.
Erano invece una decina i membri del commando entrato in azione nella notte tra martedì e mercoledì. Il loro obiettivo era la nave raffineria Fpso Mystras, gestita dalle società Sbm e Saipem, che si trovava ancorata sulla verticale del giacimento off shore di Okono Okpoho, 55 miglia al largo di Port Harcourt. A quell’ora, a bordo, la maggior parte degli 83 membri di equipaggio stava già dormendo nelle proprie cuccette e il gruppo armato non ha avuto alcuna difficoltà a prendere sotto il proprio controllo la nave e poi ad andarsene, velocemente come era arrivato, portandosi dietro i sette ostaggi.
Immediatamente dopo il sequestro è stata disposta a scopo prudenziale la sospensione dell’attività dell’impianto assalito, una struttura del tipo Fpso, ovvero Floating Production Storage and Offloading (sistema di produzione galleggiante con stoccaggio e impianto di caricamento, in grado di trattare fino a 50mila barili di greggio al giorno). Contemporaneamente, la notizia, rimbalzata a Roma, ha messo in allerta l’unità di crisi della Farnesina.
Dopo qualche ora di buio informativo, quando ormai si riteneva che anche questo sequestro multiplo si sarebbe probabilmente concluso come quelli che si erano succeduti dal febbraio scorso, da quando cioè i ribelli che combattono per il controllo della regione del delta hanno dato vita a una serie di attacchi alle facilities petrolifere delle società internazionali, è arrivata la notizia del blitz condotto dalla Marina nigeriana. E del suo bilancio.
Il cittadino inglese rimasto ucciso nello scontro a fuoco tra i militari e il commando dei rapitori è la seconda vittima, da febbraio a oggi, sul numero complessivo di almeno 150 ostaggi sequestrati nell’area.

Il primo a rimanere ucciso, nell’agosto scorso, era stato un operaio nigeriano, colpito dal «fuoco amico» dei soldati. Tutti gli altri sequestrati avevano fatto sempre ritorno a casa, generalmente dopo il pagamento di un riscatto.

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