Il no italiano al cibo transgenico agli agricoltori costa 350 milioni

e Giordano Masini

Dispiace dirlo, ma con la loro campagna contro il mais Bt (una varietà geneticamente modificata coltivata da anni negli Usa e in alcuni Paesi europei), culminata nell’emanazione di un decreto del ministro Zaia di divieto alla coltivazione (firmato due giorni fa anche dai ministri Fazio e Prestigiacomo), il ministero dell’Agricoltura nuoce gravemente alle tasche degli agricoltori italiani. E quindi dei consumatori. Secondo un recente studio dell’autorevole United States Department of Agricolture dedicato al nostro Paese, «i coltivatori di mais convenzionale sopportano perdite stimate tra 175 e 400 euro per ettaro per il fatto che non è loro permesso coltivare il mais Bt, con conseguenti perdite comprese tra i 150 ed i 350 milioni di euro annui». Dal 1998 al 2009, insomma, il bando di questa varietà di mais, di cui è ormai assodata la sicurezza, tanto da essere presente nel cosiddetto catalogo comune della Ue, è costata ai coltivatori nostrani tra i 2,4 ed i 5,1 miliardi di euro.
Sono cifre impressionanti, alle quali si potrebbe aggiungere il costo per i contribuenti dei sussidi che ogni anno lo stesso ettaro di terra riceve: fino a 360 euro circa, a seconda della regione e dell’azienda, che sarebbero ben compensati dalle potenzialità offerte dalle biotecnologie. Di questi dati al ministero delle Politiche agricole non c’è traccia, considerato che lì la musica la suona il team di esperti che va dall’attivista indiana Vandana Shiva al presidente di Slow Food, fino alla Fondazione Diritti Genetici di Mario Capanna (si veda l’homepage del sito del ministero). I coltivatori nostrani sopportano per intero il prezzo della minore profittabilità del mais convenzionale rispetto al mais Bt: mentre quest’ultimo è protetto geneticamente dall’attacco di parassiti, la varietà convenzionale necessita di un uso massiccio di pesticidi, oltre a contenere tossine potenzialmente cancerogene. Ed infatti in Italia, sottolinea il rapporto, l’uso di pesticidi per la coltivazione di mais è tra i più alti d’Europa. Lungi dal tutelare alcunché, quindi, il bando del mais Bt non fa che provocare danni alla salute e all’ambiente. Uno studio congiunto della Commissione Europea e dell’Università di Cordoba ha evidenziato che in Spagna (dove il mais Bt è ampiamente commercializzato), il numero di trattamenti chimici cui è soggetto il mais convenzionale è quasi tre volte superiore a quello del Bt. «I vantaggi per la salute e i guadagni economici derivanti dall’uso di mais Bt - prosegue l’Usda - sarebbero entrambi particolarmente elevati, e tanto i consumatori quanto i produttori potrebbero beneficiare di questa tecnologia». Come se non bastasse, il rapporto sottolinea come il divieto di coltivazione del mais geneticamente modificato renda l’Italia dipendente dalle importazioni: «Se i coltivatori di mais del Paese adottassero le biotecnologie i maggiori benefici ricadrebbero non solo sugli agricoltori, ma su tutto il settore agroalimentare che attualmente dipende dalle importazioni per tutti i prodotti tipici italiani».
Lo si voglia o meno una quota consistente dei mangimi per animali sono prodotti con mais e soia ogm importata dall'estero. Costerebbe troppo fare altrimenti, come sa la stessa Coldiretti, che predica tanto male, tuonando contro gli ogm e plaudendo al decreto di Zaia, ma è poi costretta a razzolare bene.


Qualche settimana fa un dossier sull’uso di mangimi ogm da parte dei consorzi agrari ha evidenziato come nella filiera della carne di alta qualità le linee di produzione con mangimi no-ogm siano una rara eccezione. Il costo del paradosso che rende l'Italia dipendente dall'estero per prodotti che da noi è vietato coltivare pesa quindi tutto sulle spalle di agricoltori e consumatori. Un bell'esempio di protezionismo alla rovescia.

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