No, il Vate amò l’Italia con passione E per lei lottò

Si vuole oggi processare un uomo che ha vissuto la sua vita come fosse un’opera d’arte, sempre da perfezionare.
Gabriele d’Annunzio si è speso nella ricerca dell’irraggiungibile, dell’estremo. E nell’amore per la donna e nell’amore per la Patria. È stato sempre ossessionato dalla figura femminile quale mezzo di conoscenza della vita. Il suo fermento creativo e l’inquietudine erotica non possono e non devono essere malamente interpretati, come fossero espressione di capricci maschili, follie geniali o stravaganze libertine. Così come non è giusto liquidarlo e giudicarlo politicamente come fascista. A parte il fatto che nel periodo della spedizione di Fiume e del volo su Vienna, quasi tutti gli italiani erano già potenzialmente fascisti, al poeta non interessava proprio la politica, quanto la possibilità di vivere all’estremo ogni situazione. In quel momento storico si presentò più di un’occasione.
È vero invece che il fascismo strumentalizzava tante grandi ed emozionanti idee di d’Annunzio, proprio quando egli si ritirava in solitudine per concludere la sua vita.
È ingiusto e inveritiero definire l’impresa di Fiume un colpo di testa: d’Annunzio aveva invece saputo interpretare gli umori della sua Patria, con la stessa intuitiva sensibilità che dedicava alle sue donne. Le avvolgeva di passione, le tradiva, le lasciava, ma quando erano malate egli si trasformava in un infermiere devoto e accogliente, capace di mosse sorprendenti per fare loro recuperare la forza e il sorriso.
Così egli visse, con questo sentimento per la donna-Patria, l’impresa fiumana. Cioè, avrebbe voluto restituire all’Italia, malata, quell’unità che il patto di Londra le aveva tolto.
Dunque non un colpo di testa, ma un sentito, consapevole e coraggioso impegno patriottico.


Tuttavia è comprensibile la discussione, così come sono del tutto scontate le opposte posizioni interpretative sul punto.
Del resto il poeta disse di sé: «Sono un mistero musicale, con in bocca il sapore del mondo».

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