Il supermercato è un buon posto dove rifugiarsi. Fa un caldo cane e lì, nel reparto surgelati, sembra quasi di stare in paradiso. Il pensionato in giacca e cravatta, uno che ha visto tempi peggiori, dice che la ricetta è non pensarci. Far finta che non esiste. Questa crisi che si arrampica sulle spalle è un brutto fantasma, magari chiudi gli occhi e non c’è più. È una buona filosofia, ma forse non funziona. Ne è sicura la casalinga accaldata che gira con un foglietto in mano e confronta tutti i prezzi. Non servono le cifre ufficiali per fare quattro conti: pasta e pane costano di più, il carrello bada al sodo, niente sfizi, eppure la cassiera batte in fretta cento euro. Puoi anche chiudere gli occhi, ma il fantasma è lì che saltella e ti fa ciao ciao con la mano. Questa davvero è l’estate della crisi. La sua ombra era lì da tempo, evocata, scongiurata, un buco nero all’orizzonte, con quell’euro che dimezzava i portafogli, con i salari bassi e le tasse pesanti, con l’eco americano dei mutui subprime, con le carte di credito a rate, spendi poco oggi e paghi tanto domani, simbolo consumistico di questa stagione dove l’ultima speranza è spingere la notte qualche metro più in là. E a scandire tutto questo la voce dei tecnocrati di Francoforte, i signori della Bce, che di semestre in semestre tiravano su il tasso, a colpi di quarto di punto, e ogni volta era un tratto di corda intorno al collo. La decisione, dolorosa, veniva spiegata con lo stesso sussurro liturgico: serve a tenere bassa l’inflazione. Vero, ma è un po’ come sentirsi dire dall’inquisizione: figliolo fa male, ma ti salva l’anima.
La vera crisi, però, quella con il sapore dell’austerity, vaghi ricordi anni ’70, foto in bianco e nero, taniche di benzina, vecchie biciclette e domeniche a piedi, non ti mordeva ancora la pelle. Ecco questa è la novità. L’incertezza si è fatta un po’ più cupa, densa, sincera. Negli ultimi vent’anni, dopo la caduta del Muro di Berlino, c’era la sensazione che prima o poi bisognava fare i conti con un Occidente a crescita zero. La generazione del welfare aveva speso troppe risorse, qualcuno avrebbe dovuto pagare. Prima o poi. Il sospetto è che sia adesso e che tocchi a te saldare il conto. Il futuro, improvvisamente, è più corto. Qualche megadirettore di banca nascosto nei piani più alti dell’universo ha alzato il telefono e ha detto: ragazzi, qui bisogna rientrare dal rosso. E in fretta. Niente dilazioni. Il risultato è che ci si ritrova tutti attapirati a chiedersi: «Ma fa sul serio?». Forse sì. Ed è questo più o meno lo spirito con cui si parte per le vacanze.
Cerchi di non drammatizzare. Ti rifugi nel fastidio dei piccoli effetti collaterali. Il ronzio dei titoli sulla giustizia, in questa estate di magra, ti infastidisce ancora di più. Bisanzio muore e qui si parla del sesso degli angeli. Le etichette made in China ti fanno capire che non c’è partita. Tu hai le tasse, loro fanno i soldi calpestando i diritti civili. L’antipatia per gli spagnoli, intanto, sale allo zenit. Questi non solo hanno vinto gli europei, ma ti sbattono in faccia l’arroganza del sorpasso economico. Ma non erano i parenti poveri? Quelli che giocano bene e non segnano mai. Quelli che copiavano agli italiani perfino i western spaghetti. Quelli che si svegliano tardi e cenano alle dieci. Qualcuno, per favore, ci dica se siamo noi che ci siamo fermati o sono loro che sono dopati. Non è facile rassegnarsi alla sconfitta.
Il pensionato in giacca e cravatta, che da un’ora gira tra gli scaffali del supermercato senza acquistare nulla, è convinto che tutto questo ci faccia bene. Non abbiamo più scuse. E cita la solita storia della formica e della cicala. La cassiera fa notare che lo avevano detto anche per l’Euro. Lei, personalmente, stava benissimo da cicala. Le cicale spendono, fanno circolare i soldi, non hanno fantasmi, non si svegliano di notte contando a rate, e soprattutto si divertono. I soldi.
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