Milano - «Il successo è una questione di dignità e rispetto per il pubblico. Siamo dei “provinciali”, viviamo ancora nei nostri paesini emiliani e siamo nati nelle balere». Così Beppe Carletti spiega 45 anni di pellegrinaggi dei Nomadi attraverso le classifiche, i dischi, i Festival (quest’anno hanno duettato con Grignani e due anni fa sono stati i vincitori morali con Come si fa), insomma attraverso il costume italiano. 45 anni in prima fila, non da revivalisti, ma con tante canzoni nuove, tanti esperimenti per rinnovare il loro battagliero pop beat d’autore. È tempo di celebrare per i Nomadi, e ripartendo dal recente doppio album Live con l’Orchestra sinfonica, la band tornerà idealmente al 1963 con una tre giorni (a Folgaria, vicino a Trento, dal 20 al 22 giugno) di incontri e soprattutto con due concerti insieme alla Omnia Symphony Orchestra. «Ritorniamo da dove ripartimmo, nel 1993, orfani di Augusto Daolio - ricorda Carletti - eravamo commossi ed emozionati, sapevamo di correre un bel rischio perché Augusto era un simbolo e una delle più belle voci del pop».
Dev’essere stato difficile superare la sua scomparsa.
«Quand’era malato è salito sul palco fino all’ultimo, glielo consigliavano i medici. Prima del concerto stava sul letto pieno di dolori, quando cominciava a cantare riviveva».
E quando decideste di riprendere?
«Abbiamo pensato: Augusto è un mito ma noi siamo una band. Così decidemmo di riprovarci, anche per perpetuare la sua memoria. E oggi abbiamo un pubblico trasversale che ci segue ovunque».
Come vi siete conosciuti con Augusto.
«Suonavamo in un bar, arriva un nostro amico e ci presenta un ragazzo allampanato dicendo: “Lui fa il cameriere ma canta bene”. Prese il microfono, cantò Il blues del mandriano e un paio di pezzi in inglese, La gente impazzì e divenne subito uno dei nostri. Avevamo 16 anni. Tre anni di gavetta poi arrivò il successo con Come potete giudicar».
E poi la lunga collaborazione con Guccini.
«Lui è stato importante per noi e viceversa. Lui è un grande poeta, un eroe della cultura popolare e noi abbiamo contribuito a rendere famosi brani come Noi non ci saremo e Dio è morto. A bere era imbattibile. Ricordo quando andammo da lui a Pavana ad incidere un album. Passavamo le notti a giocare a carte, a bere e mangiare cipolla cruda».
Il segreto dei Nomadi?
«L’aver mantenuto la purezza delle origini. Unire brani degli anni Sessanta a quelli composti ieri. Noi non siamo Vasco che fa quattro concerti all’anno da milioni di persone; noi ne facciamo duecento da quattro-cinquemila fan. Non abbiamo mai detto siamo arrivati. Arrivati dove? Avevo 9 anni quando decisi di vivere di musica, prendendo lezione di piano dal maestro del paese. In una stanza di 5 metri per 4 insegnava qualunque strumento. A 13 anni volevano portarmi in Germania a suonare, ma i miei genitori me lo impedirono. Io dico sempre che è difficile essere Nomadi; non come musicisti, ma come esseri umani».
Ma eravate un po’ ribelli o no?
«Non ci siamo mai fatti mettere i piedi in testa. Dio è morto fu censurata e quella fu la nostra fortuna perché tutti ne parlarono. Noi non ci siamo mai schierati: siamo sempre stati impegnati nel sociale ma, negli anni Ottanta, quando nessuno ci voleva, dicevano: “I Nomadi sono comunisti”, prima se non eri di sinistra non ti voleva nessuno».
E il ’68?
«Siamo stati dei privilegiati. C’era chi protestava perché non aveva soldi né lavoro, noi lo facevamo con le canzoni ma venivamo da un background diverso».
Quale?
«Le balere appunto, luoghi dove la gente s’incontrava per ballare e per conoscere le ragazze. Si suonava qualche brano e poi ci si fermava a chiacchierare. Poi invece diventammo l’attrazione: suonavamo un’oretta per poi lasciare ai ragazzi lo spazio per ballare. Il nostro concerto è così, una festa con classici come Noi non ci saremo, Un pugno di sabbia, Io vagabondo fino alle canzoni nuove».
E ora l’orchestra.
«Lo show da cui è nato il disco l’hanno visto solo 2500 persone. A Folgaria ci sarà una folla. Un sogno per noi ma mai fermarsi. Stiamo preparando un nuovo album per l’anno prossimo».
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