L a mia prima reazione alla proposta di mettere i tassisti milanesi in divisa è stata di evocare un detto piemontese spesso utilizzato da mio padre: "A l'an 'n bun ben dal bali" (non sono sicuro della grafia), che grosso modo si traduce con "hanno proprio del tempo da perdere". Vabbè che siamo in agosto, ma è possibile, mi sono chiesto, che con tutti i problemi che ha la città si debba scatenare un dibattito su un tema così marginale? Si tratta di una semplice provocazione per indurre certi conducenti un po' troppo trasandati a un maggior decoro o di un modo per coinvolgere (e magari far guadagnare) gli stilisti, giustamente considerati una delle colonne dell'economia milanese? Oppure la giunta, in difficoltà con la preparazione dell'Expo, ha deciso di tentare una fuga in avanti, introducendo una regola che - a mia conoscenza - non esiste in alcuna città del mondo? Ma, anche una volta accantonata la dietrologia, ho concluso che l'idea ha più aspetti negativi che positivi.
Anzitutto, ritengo che non sia giusto obbligare dei liberi professionisti a vestirsi tutti allo stesso modo, come se fossero vigili urbani o stewart di una linea aerea. In ogni caso, una divisa non basterebbe: ce ne vorrebbe almeno una per l'estate, una per la mezza stagione e una per l'inverno; ce ne vorrebbero altrettante per le donne, che sono sempre più numerose; forse ci sarebbe anche la necessità di diversificare tra chi ha 25 anni e chi ne ha 70; e nessuno ha ancora specificato chi dovrebbe pagare il conto.
In secondo luogo, è bene dire subito che l'omologazione è comunque impossibile da conseguire. Non c'è legge che possa costringere un lavoratore autonomo a vestirsi in un certo modo, e a giudicare dalle prime reazioni della categoria, i candidati alla renitenza sembrano essere maggioritari.
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