Politica

Non dobbiamo chiudere gli occhi

Occorrono una grande malafede o una totale cecità per negare il rapporto che esiste fra una certa criminalità violenta e invasiva e il flusso dell’immigrazione clandestina. Di questi tempi non si nutre, pare, molta fiducia nelle cifre e si sorride amaramente ripensando alla storia dei polli di Trilussa, ma se non si vuole credere alle statistiche si ponga un po’ d’attenzione alle cronache che, fisiologicamente, non ci danno tregua e ci incalzano. Ripetitive cronache d’orrore, di stupratori in branco, di rapinatori e scippatori e violenti di ogni gradazione che agiscono in un parco o in una periferia, a Milano, a Bologna, a Varese, nella provincia veneta; di notte o in pieno giorno. Storie terribilmente eguali, a cominciare dai criminali, quasi sempre immigrati clandestini, quasi sempre con precedenti penali e carcerazioni troppo brevi alle spalle, spessissimo con tanti nomi falsi. Certo, il male non l’hanno inventato loro nei loro tormentati Paesi, ma va detto che in questa fase storica, l’interpretano con un’energia eccessiva, intollerabile, aggravandolo con la durezza e la violenza che caratterizzano le loro società d’origine più che la nostra.
La sociologia più raffinata e la retorica della solidarietà illimitata, e a tutti i costi, non riescono a nascondere il nesso oggettivo fra malavita e invasione di irregolari; un nesso che i cittadini comuni, la gente normale scorge e valuta pensando, e chiedendo, che per ridurre la prima bisogna ridurre per quanto possibile il flusso dei clandestini.
Gente normale, dicevamo. Cittadini che fanno le cose semplici, banali di tutti i giorni, che vivono in case e in quartieri privi di sofisticati e costosi sistemi di sicurezza, che non dispongono di vigilantes e nemmeno di «bodyguard», una massa sterminata di uomini e donne di ogni età e condizione che non dispongono di quegli agi e di quelle facilitazioni di cui godono, legittimamente, tanti appartenenti all’establishment. Forse per questo gente così non crede alla sociologia. Teme gli stupri, le rapine, lo spaccio di droga diffuso e insistente che assedia i più giovani; non si preoccupa troppo del Gotha della mafia albanese o siciliana o russa, ha paura degli scippi, della prepotenza dei falsi storpi che mendicano in gruppo organizzando torme di bambini schiavizzati. Gente normale, che continua a chiedersi perché si debba definire «micro» quella criminalità che le avvelena la vita.
I cittadini comuni non odiano né hanno paura degli immigrati regolari, li rispettano, fanno affari con loro, li fanno lavorare, ne comprano i prodotti cosiddetti etnici, ne utilizzano i servizi. Anche gli immigrati regolari temono i clandestini, sanno che sono loro soprattutto ad alimentare i pregiudizi.
E la gente comune, di là delle divisioni e degli schieramenti politici, chiede sicurezza, vorrebbe che si diradasse quell’aria di lassismo, di incertezza, di mancanza di legalità che caratterizza le zone delle nostre città dove più alta è la presenza dei clandestini. Chiede troppo? Dobbiamo considerare la gente normale come una massa di estremisti rabbiosi? No, proprio no.
Il prefetto di Milano Bruno Ferrante non è un pericoloso agitatore, è un dirigente responsabile che ha affrontato diverse emergenze senza inutili ostentazioni di muscoli statuali. Ebbene anche Ferrante sottolinea che all’impegno delle forze dell’ordine deve corrispondere quello della magistratura, con pene e misure cautelari adeguate alla gravità dei crimini. E ricorda che comunque investigazioni e processi non bastano, occorrono interventi decisivi contro l’immigrazione clandestina.
Il cerchio si chiude.

In un momento come questo tutti devono fare la loro parte, gli uomini della legge, i dirigenti, anche gli uomini della politica, alcuni dei quali – per cecità ideologicamente motivata o per esigenze propagandistiche – non vogliono vedere il disagio di tanti, troppi cittadini.

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