«Cogito ergo sum». Così diceva il razionalista Cartesio. O meglio, il filosofo francese diceva moltissime altre cose ma la cultura occidentale, che dai tempi di Platone si è fatta vanto e scudo dell’invincibilità del ragionamento, ha voluto riconoscere in questo breve assunto anche il miglior ri-assunto possibile della quidditas umana: il pensiero che pensa se stesso, il pensiero che si fa ragione. Tant’è che quando il cristianesimo si è avvicinato all’Occidente, l’evangelista Giovanni trovò una «formula che fosse accattivante per i gentili amanti del rigore platonico: «All’inizio era il Logos (che è verbo/ragione) e il Logos era presso Dio... ».
Ed è pur vero che poeti romantici e pittori senza un orecchio rivendicano, da secoli, i limiti della ragione che ragiona e basta, urlando dalle tele e dai versi i diritti dell’intuizione folgorante, di quella parte di cervello che non capisce ma «sa» le cose.
Bene, ormai le neuroscienze hanno deciso di dare una solida mano ai sostenitori degli istinti animali, delle ragioni del cuore, degli inspiegabili lampi di intuito. L’ultimo aiuto arriva proprio ora da Come decidiamo di Jonathan Lehrer (Codice, pagg. 246, euro 24, trad. di Susanna Bourlot). Lehrer, che è stato anche allievo del più noto dei neuroscienziati, il nobel Eric Kandel, va a colpire uno dei capisaldi dei pasdaran del pensiero razionale: la capacità di decidere. Perché il fatto che il «pensarci su», porti sempre alla decisione giusta è una specie di monolite della vulgata razionalista. Tutto l’opposto del consiglio zen del maestro del bushido giapponese, Yamamoto Tsunetomo, che suona più o meno così: «Qualsiasi decisione, anche la più importante, va presa nello spazio di sette respiri».
Lehrer dimostra, anzi, che le decisioni vengono prese dal cervello in molto meno che sette respiri e con meccanismi che passano dall’emozione, dalla sfera dell’Es, quella che con la ragione, come la intendiamodi norma, ha ben poco a che fare.
Qualche esempio di quelli che Lehrer, uno scienziato che ama maneggiare fatti concreti, usa nel suo libro. Uno degli uomini che ha cambiato i destini della prima guerra del golfo è stato il capitano di corvetta Michael Riley. Nella notte del 24 febbraio 1991 stava osservando lo schermo radar di un cacciatorpediniere inglese, uno schermo, tra l’altro, mal funzionante (il sistema di indicatore di quota era fuori uso). Ad un certo punto, scusate il gioco di parole, vede un puntino diretto verso la corazzata americana Missouri. Si muoveva su una rotta percorsa dai caccia alleati A-6 alla stessa velocità degli A-6. Gli A-6 avrebbero dovuto avere il trasponder acceso, ma ai piloti il trasponder non piaceva: temevano che gli iracheni ne intercettassero il segnale. Riley non aveva nessun motivo razionale per pensare che quella lucina sul radar fosse qualcosa di diverso da uno dei tanti A-6 che aveva già visto passare. Eppure fu colto da un fortissimo senso di allarme, nella sua testa echeggiava la parola «missile». Dopo una trentina di secondi di dubbio fece aprire il fuoco dalla sua nave contro il bersaglio. Poi rimase per sei ore a chiedersi se avesse abbattuto un pilota americano o davvero un missile. Tutti gli altri uomini radar si affannarono sui tracciati per capire se il segnale dell’oggetto abbattuto avesse qualche particolarità: nessuna. Eppure dopo una notte infinita il responso fu chiarissimo: Riley aveva abbattuto un missile iracheno Silkworm, senza di lui l’equipaggio della Missouri avrebbe avuto guai mortali. Il caso ovviamente è stato uno dei più studiati dagli psicologi militari. Hanno rivisto la registrazione del radar per centinaia di volte. Alla fine, pensa che ti ripensa, hanno trovato la soluzione. Rispetto agli A-6, per questioni di quota, il missile appariva sullo schermo a una distanza dalla costa leggermente superiore a quella degli A-6. Quasi irrilevabile a occhio nudo. Questo dettaglio, assolutamente impercettibile, a livello razionale ha allertato i sensi di Riley sino a fargli lanciare (a ragione) un missile.
Un caso limite? Lehrer cita gli studi dello psichiatra Antonio Damasio, che si è a lungo occupato di pazienti che hanno riportato danni a zone del cervello correlate alle emozioni. Persone, insomma, che hanno un quoziente intellettivo sanissimo ma, ormai, prive di sfera sentimentale. Tecnicamente, dovrebbero essere delle specie di computer che nel decidere, soprattutto sotto stress, non ne sbagliano una. Risultato pratico? Non riescono a cavarsela, perdono ore per controllare il dettaglio più banale. Con buona pace degli illuministi e dei positivisti: decidere è emozionarsi, magari controllare l’emozione e direzionarla, non esserne privi. Per usare le parole di Lehrer: «Ci vuole molto tempo per progettare un cervello... i talenti razionali dell’uomo rispetto al resto sono recentissimi... presentano gli stessi limiti di qualsiasi nuova tecnologia: hanno un sacco di difetti di progettazione e virus dei programmi... Invece il cervello emotivo è stato meravigliosamente rifinito dall’evoluzione nelle ultime centinaia di migliaia di anni».
È questa sfera emotiva che consente ai piloti d’aereo di utilizzare l’esperienza e il ragionamento fidando però in quell’istinto che li salva dai disastri, è questa intelligenza che consente al lanciatore di una squadra di football americano o al regista di una squadra di calcio di azzeccare il passaggio. Ma è sempre questa intelligenza, istantanea, che fa prendere le decisioni giuste a un regista di soap opera o a un direttore di giornale (Lehrer documenta caso per caso).
C’è però anche il rovescio della medaglia, e forse è per questo che ci aggrappiamo all’illusione del razionale. Quando l’istinto sbaglia, sbaglia di brutto. E questo sbaglio ci fa sentire traditi. Solo allora invochiamo la ragione, poverina.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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