Ma non sempre il Pil dice tutta la verità

Si fa presto a dire Pil. Abituati come siamo a leggere l’acronimo del Prodotto interno lordo come un ormai familiare indicatore istantaneo sullo stato di salute economico di un Paese, in realtà ben poco ne sappiamo. Le cronache riducono spesso il Pil a un’espressione percentuale: se c’è un segno più, le cose vanno bene (o non tanto male); se compare un meno, si rischia (o già c’è) la crisi. È vero: questa semplificazione rende tutto più chiaro. Ma finisce anche per oscurare le cifre, capaci di far venire un capogiro perfino a Bill Gates o al sultano del Brunei, che stanno dietro a quei decimali. Quanti sanno, per esempio, che la ricchezza complessiva dell’Italia ammonta a circa 2mila miliardi di dollari? E che il peso di Stati Uniti, Europa, Cina e Giappone messi assieme è pari al 68% del Pil mondiale, a sua volta attorno ai 58mila miliardi?
E poi, di quale Pil vogliamo parlare? C’è quello destagionalizzato, che tiene conto del diverso numero di giorni lavorativi; oppure quello espresso in termini nominali, cioè in moneta attuale, da contrapporre a quello reale, ovvero depurato delle variazioni dei prezzi dei beni prodotti. Dividete il Pil nominale per quello reale, e otterrete il deflatore del Pil, con cui si verifica l’andamento di tutti i prezzi, non solo di quelli al consumo. Meno esoterico è il Pil pro capite, fonte di polemiche dopo il sorpasso della Spagna nei confronti dell’Italia, a patto però di non complicarne il calcolo applicando il potere d’acquisto o il reddito in valori assoluti.
Insomma, il Pil può essere un rompicapo.

Per i detrattori, più semplicemente, è un modello da abbattere e da sostituire con qualcosa che meglio corrisponda al benessere di una nazione o di un individuo. Tipo il Genuine Progress Indicator o la Gross national happiness, il segnalatore di felicità.

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