Romano Bracalini
L’unità si era compiuta senza una precisa nozione del passato e una vera coscienza del presente. Giustino Fortunato diceva che nessuno immaginava che mezza Italia, poco difforme dalla Turchia, ad essa così prossima, sarebbe stata come un vaso di terracotta accanto a uno di ferro. Aggiungeva che l’altra mezza Italia, «dalla Toscana in su, benché divisa da opposte costituzioni, dalla repubblica democratica di Firenze alla potente oligarchia di Venezia, al principato assoluto del Piemonte, dai mille floridi comuni, alle cento splendide Signorie, serba intatto il carattere sociale di un Paese essenzialmente omogeneo, la cui connessione si fonda sull’autonomia del Municipio. Al contrario l’Italia meridionale dal Lazio e dagli Abruzzi in giù, attraverso tutte le età, con qualsivoglia forma di governo, soggetta o no allo straniero, rimane immota, come un solo corpo intorno a un centro solo, ora Benevento, ora Napoli, e sempre organizzata feudalmente, anche quando il feudo, politicamente e giuridicamente, tende a sparire».
Costantino Nigra nella sua relazione a Cavour, il 20 maggio 1861, aveva messo il dito nella piaga: «Si può dire con tutta verità che ogni ramo di pubblica amministrazione fosse infetto dalla più schifosa corruzione. Libertà nessuna, né a privati, né ai municipi. Piene le carceri e le galere dei più onesti cittadini, commisti ai rei dei più infami delitti. Gli impiegati in numero dieci volte maggiore del bisogno. Gli alti impiegati largamente pagati, insufficientissimi gli stipendi degli altri. Ammessi agli stipendi governativi ragazzi appena nati, così che contavano gli anni di servizio dalla primissima infanzia. Nelle carceri, nell’esercito, nelle amministrazioni, in tutti i luoghi pubblici esercitata la camorra, il brigantaggio nelle province, il latrocinio dappertutto ».
La tesi di taluni storici e economisti che la mancata unificazione abbia rallentato lo sviluppo del Paese non regge: i numeri dimostrano esattamente il contrario. Nei primi decenni dell’Ottocento, rispetto ai Paesi europei più progrediti, l’Italia del Centro-Nord era al quinto posto per reddito pro-capite dopo l’Inghilterra, i Paesi Bassi, l’Austria e il Belgio. A Firenze erano sorte le prime banche e istituti di credito. L’Italia del Centro-Nord era più o meno allo stesso livello di Danimarca, Francia, Germania, Svezia. Ma nel 1870, ossia nove anni dopo l’unità, l’Italia settentrionale, dal quinto posto, era scivolata all’ottavo posto dietro la Francia, la Danimarca e la Germania per effetto del rallentamento dovuto all’aggancio del Mezzogiorno.
Secondo uno studio accreditato, nel 1811 il 90% della popolazione del regno di Napoli era classificata «povera e indigente, ai livelli minimi di sussistenza». Non c’era borghesia moderna, la società era divisa come nel Medio Evo in nobili, latifondisti e plebe analfabeta. Non strade, non porti, sui fiumi spesso in piena non vi sono ponti, non utilizzo delle poche acque del regno. L’unificazione aveva messo in contatto le due parti della penisola nel modo più traumatico e artificiale. Si impose subito una scelta di vita. Rosario Romeo scrive che «la subalternità del Sud fu la condizione dello sviluppo del Nord». Fortunato aggiunge che senza l’unità il Mezzogiorno sarebbe diventato un Paese balcanico. Era naturale che le grandi opere pubbliche (strade, ferrovie, porti) dovevano essere fatte laddove lo sviluppo industriale le rendeva più urgenti e necessarie.
Francesco Saverio Nitti, come altri meridionalisti, ma lui più di tutti, tentava di accreditare la leggenda di un Sud ricco, prospero e felice, finché non erano arrivati i piemontesi a depredarlo. Ma Giustino Fortunato lo smentiva . Le leggi scoraggiavano ogni attività economica che non fosse di carattere militare. Il lavoro non aveva distinzione di decoro. Capitali e risparmi giacevano improduttivi. Scrive l’economista liberale piemontese Luigi Einaudi che «nel regno delle Due Sicilie le opere pubbliche si facevano solo se lo consentivano le spese ordinarie di bilancio, e in ogni caso bisognava far credere che esse fossero dovute alla generosità del sovrano».
Nel 1839 era stata solennemente inaugurata la ferrovia Napoli-Portici, di 33 chilometri. Era la prima in Italia e la pubblicistica meridionale ne ha fatto un vanto eccessivo senza dire che per lungo tempo rimase l’unica. Inoltre non si diceva che era stata interamente costruita da una società francese e che le prime due locomotive erano state importate dall’Inghilterra. Le carrozze erano prive di servizi igienici e di sedili, si viaggiava in piedi; quando il treno sostava nelle stazioni i viaggiatori prendevano d’assalto le latrine. Il servizio veniva sospeso nei giorni festivi e durante la settimana santa. Le terze classi rimasero senza sedili fino al 1860. Al momento dell’unità le ferrovie napoletane non superavano il centinaio di chilometri e oltre Vietri non andavano. Nel Nord Italia erano in esercizio 1757 chilometri di ferrovie, di cui 803 in Piemonte, 202 in Lombardia, 298 nel Veneto.
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