A «Nordest» un vento che gela i sentimenti

Massimo Carlotto e Marco Videtta oscillano fra boom economico e atmosfere «noir»

Ha la doppia ambizione di essere sia un romanzo giallo, sia un referto sulla «mutazione» che ha trasformato una regione quasi arretrata nel maggiore polo industriale d’Italia: eppure siamo convinti di non sbagliare sostenendo che Nordest di Massimo Carlotto e Marco Videtta (edizioni e/o, pagg. 201, euro 15) sia un noir fascinoso soprattutto per l’atmosfera che lega questi due aspetti, permettendo loro di rispecchiarsi l’uno nell’altro.
Nordest è fatto di due storie, quella del fragile boom economico di una regione e quella delle investigazioni che seguono ad un omicidio. La prima l’abbiamo sentita e letta molte volte: lo sviluppo del Nordest segue allo scempio della cultura precedente, cattolica e contadina, e non crea nuova cultura, nemmeno d’impresa. Gli investimenti nella ricerca tecnologica sono stati pressoché inesistenti, lo sfruttamento della manodopera a basso costo, massiccio e non appena la crisi ha bussato alla porta le aziende si sono affrettate a «dislocare» nell’Europa dell’Est o in Cina, lasciandosi dietro migliaia di capannoni abbandonati. La seconda è la storia di Giovanna, uccisa la vigilia delle nozze mentre beve un drink nella vasca da bagno. Il fidanzato, rampollo del più noto avvocato del paese, appena si rende conto dell’inettitudine del giudice che conduce le indagini decide di farsi detective: scoprirà che l’assassino di Giovanna proviene dall’ambiente finanziario nel quale egli stesso si muove, un ambiente molto disinvolto nell’oliare i propri affari con l’illegalità, la mafia (rumena o nostrana) e il ricatto.
Osserviamo questi personaggi più da vicino. Pensiamo ai loro nomi (Filippo Calchi Renier, Giovanna Barovier...), o all’inespressività del loro sguardo. C’è gente che alza la voce, in Nordest, che scatta e si picchia: ma sono gesti afoni, come se l’audio fosse spento. Queste figure semoventi sembrano provenire dalla quarta di copertina di un numero di Diabolik, lo straordinario e raggelante fumetto che potrebbe tranquillamente essere ambientato sulla luna. Non sono le passioni e nemmeno l’avidità ad agitare le sagome create da Carlotto e Videtta. Una passione presuppone il possesso di un’anima, mentre «a lui era tornato in mente quel quadro di Munch in cui uomini e donne sembrano venire incontro a chi guarda come inconsapevoli cadaveri a passeggio. Morti, erano morti ma continuavano a brigare, intraprendere, congiurare come se il mondo fosse appena nato».
Oltre a Munch, come non pensare alla Maison des morts di Apollinaire? Sta appunto in questa divaricazione tra la volontà di una denuncia concreta, che indubbiamente c’è, e il bersaglio astratto, anonimo che pure si colpisce, la curiosa singolarità di questo romanzo; la sua efficacia letteraria e la sua debolezza sociologica.

Quando il personaggio di Filippo decide di fuggire, non sogna una collina toscana: sogna un luogo che si chiami «Ovunque, Altrove, Lontano»; come se l’Italia, schiacciata tra la torrida linea della palma che sale e il gelido vento del Nordest che scende, fosse infine divenuta inabitabile. Verrebbe quasi da annuire, da acconsentire ad una suggestione tanto pessimistica; non fosse che a questo punto temiamo che al Nordest sia stato chiesto troppo, o troppo poco.

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