Leggevo Italia di Charles Wright, il libro che raccoglie tutte le poesie dedicate alla nostra nazione dal poeta americano nel corso della sua lunga carriera (Slides of Verona, Oscar Wilde at San Miniato, Bar Giamaica 1959-60...), e ho avuto un'illuminazione: perché un viaggio in Italia non lo facciamo scrivere ai poeti italiani? Non che Wright non sia bravo, anzi, ma ormai ha un'età e fatalmente ricorda l'Italia del tempo che fu, la bellissima penisola speranzosa e giovane all'inizio del boom economico, quando c'era «Modugno su tutti i giradischi». Fra parentesi, anche chi come me nel 1959 era ancora in mente Dei non può, leggendo la lunga Giorni italiani, non farsi prendere da una terribile nostalgia (stamattina che cantanti ci sono su tutte le radio? J-Ax e Fedez?). Poi Wright è uno solo e le città italiane sono almeno cento e per non escluderne nessuna di poeti ce ne vorrebbero altrettanti (niente paura: per non abusare dello spazio del giornale e della pazienza del lettore qui sono soltanto dodici). Poi Wright per quanto italofilo è comunque del Tennessee: non c'è niente di male a nascere nel Tennessee, salvo uno sguardo inevitabilmente un po' turistico al cospetto di città a forte rischio cartolinesco quali Venezia, Firenze, Roma. Chissà se oggi è possibile scrivere una poesia non turistica e però innamorata dei luoghi, mi sono chiesto. Un tempo, nei versi, i toponimi risuonavano più di frequente, e penso innanzitutto a Orazio la cui quinta Satira è un itinerario sulla via Appia, Roma-Terracina-Capua-Benevento-Canosa-Brindisi, che fa venire voglia di partire adesso. Ancora oggi una visita a Trieste va preparata leggendo Saba, e una visita a Genova leggendo Caproni, aprendo solo in un secondo momento le pagine Touring o Wikipedia. La poesia dei luoghi ha perfino qualche risvolto di fatturato. Se vado a Torino finisco spesso al Caffè Baratti e non perché sia così meglio degli altri locali, ma perché Gozzano vi ha ambientato la famosa poesia sulle donne golose: «Io sono innamorato di tutte le signore/ che mangiano le paste nelle confetterie». E stavo dimenticandomi di citare la Maremma di Carducci, le dannunziane città del silenzio... Poi dev'essere successo qualcosa e ora nemmeno il viaggiatore più maniaco (quindi nemmeno io) usa come guide i poeti italiani viventi.
Sarà per la perdita di autorità della poesia? Sarà per la mancanza di un canone, per la dispersione dei pochi lettori verso un numero esagerato di autori? Anche, ma non solo. A un certo punto i poeti sono diventati intimisti ed egoisti, usando due aggettivi per evitarne uno troppo usato che però alla fine uso lo stesso così ci capiamo meglio: ombelicali. C'erano una volta il bardo, il vate, il cantore locale, ed erano tutte figure legate a un territorio, vasto o minuscolo poco importa. Mentre la poesia contemporanea tende a essere senza luogo cosicché di molti poeti puoi leggere interi libri e capire dove vivono solo grazie al risvolto. Di molti poeti e di moltissime poetesse, a dirla tutta, e se mi daranno del misogino pazienza, tanto i miei detrattori saranno persone che di letteratura ne bazzicano poca altrimenti si sarebbero accorti che lo scrivere di amori e di dolori, dei famigerati sentimenti, a dispetto della montante indifferenziazione sessuale è ancora un mestiere a maggioranza femminile. Guardate lo Strega di quest'anno: il favorito uomo scrive di montagne, la favorita donna scrive di se stessa. A sua parziale discolpa, Teresa Ciabatti il suo romanzo egotista lo ambienta in un posto preciso, Orbetello, viceversa innumerevoli poetesse collocano le loro poesie autocentrate in un iperuranio che né Platone né Google Maps saprebbero mai rintracciare. Finito di parlar male delle donne vorrei cominciare a parlar male degli uomini che ci affliggono con versi ingombri di mamme e di nonne, di ginocchia sbucciate e fanciullezze perdute: la poesia non può essere il ghetto della memoria, poi non bisogna lamentarsi se nessuno si ricorda più della sua esistenza.
Concluso l'ingrato compito, torno all'illuminazione iniziale e vengo alla tentazione immediatamente successiva: ma perché un viaggio in Italia non lo scrivo io, tutto da solo? In fondo l'idea è mia, perché regalarla ad altri? Tanto i poeti laureati saranno in altre faccende affaccendati, toccherebbe pregarli per magari ricavare, dopo mille mail, telefonate, piccioni viaggiatori, una lista di silenzi e di rifiuti. E poi, comunque, cosa ci (...)
(...) vuole? Non è questa l'epoca della disintermediazione? Oggi che per la critica gastronomica non ci si rivolge più ai critici gastronomici, basta TripAdvisor, oggi che (almeno negli Usa) per i taxi non ci si rivolge più ai tassisti, basta Uber, oggi che per la politica non ci si rivolge più ai politici, basta il blog di Grillo, perché mai per la poesia ci si dovrebbe ancora rivolgere ai poeti? Analfabeta non sono, di poesia ne ho letta tanta, il rimario è su internet e per ripassare la metrica ci sono gli appositi libri di Gabriella Sica e Giuseppe Conte. Riaprire Scrivere in versi e Manuale di poesia è stato provvidenziale: mentre procedevo nella lettura mi hanno fatto cambiare idea. Il ruolo della metafora? Metonimia e sineddoche? Sinalefe e dialefe? Santissimo Iddio! E la sinafia? Cos'è mai la sinafia? Sarebbe la fusione di un verso con il successivo, la usava Pascoli e mi ero completamente dimenticato della sua esistenza.
Rendendomi conto che la versificazione richiede mestiere, mi è passata la voglia. Di indole conservatrice, se non proprio reazionaria, ipotizzavo di tentare niente meno che il sonetto: quattordici endecasillabi (ehm) raggruppati in due quartine a rima alternata o incrociata (ehm ehm) e in due terzine a rima varia (ehm ehm ehm). Approfondendo l'intricata questione sono addivenuto a più miti consigli, dicendo addio al sogno di diventare il nuovo Petrarca. Perché fare una faticaccia ed espormi a una figuraccia? Il viaggio poetico in Italia lo compongano pure i poeti, ne abbiamo così tanti, che si diano da fare, se la sbrighino loro con metrica e ritmica. Già organizzare il cimento sarà di per sé un grande merito, mi sono detto, pensando che il viaggio poetico avrebbe fornito un doppio servizio: alla patria amata e alla poesia diletta. E per l'appunto ho vinto l'ultima pigrizia e l'ho organizzato, ma prima devo spiegarmi. Ho parlato di servizio alla patria perché la vera poesia salva le cose che nomina. Lo pensa anche Naipaul: «Da giovanissimo avevo l'impressione che il posto fosse in qualche modo incompleto, vuoto. In seguito pensai che all'isola mancasse la dimensione sacra perché nessuno ne aveva scritto». Il Nobel caraibico si riferisce alla sua Trinidad, ma il concetto è valido universalmente. In apparenza l'Italia è l'opposto di Trinidad, essendo stata descritta, dipinta, fotografata, filmata in lungo e in largo. Eppure l'attuale polarizzazione sull'asse Roma-Milano, la crescente concentrazione dell'interesse mediatico e artistico sulle grandi città, sta impoverendo anche spiritualmente tutto quello che non è metropoli. Che ne sarà, faccio dei casi-limite, di Cuneo e di Savona, di Teramo e di Sondrio? E, stavolta non casi-limite bensì piccole capitali della grande Italia dell'arte, di Mantova e di Parma, di Ravenna e di Padova? Urge riscriverne per riconsacrarne il nome. E poi ho parlato di servizio alla poesia perché assegnando alla parola poetica un compito più grande del sentimentalismo privato forse la si potrà salvare dall'estinzione nel discorso pubblico. Bisogna estrarre i poeti dal loro solipsismo, ho pensato, bisogna strapparli ai loro festivalini, alle loro recensioncine, al loro piccolo mondo di piccoli premi e prefazioni.
«Tutto ciò che serve solo all'autore non vale nulla»: forte di questo pensiero pascaliano ho chiesto ai dodici migliori poeti disponibili a un viaggio ideale di mettersi al servizio di un luogo amato, scrivendo per il Giornale non più di quattordici versi (proprio la classica, italianissima misura del sonetto che sognavo di scrivere). Nessuno mi ha mandato a quel paese.
Nessuno mi ha costretto a usare i piccioni viaggiatori: sembrano vivere nelle nuvole eppure i poeti sono tutti su internet. Mi sono imbattuto in dodici entusiasti e nessuno mi ha fatto penare più del necessario per ottenere la poesia agognata. Sono felice di averci visto giusto: quando ci si mette da parte, ecco che si parte.
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