Il Nostradamus del Novecento

Diceva: «Scrivo per evitare che si realizzino». Ma le sue previsioni su politica, economia e comunicazioni si sono avverate tutte. Esce la prima biografia di un genio «onnivoro»

«Vedo il reale, e nel reale riesco a distinguere i fatti dominanti e ne traggo le conseguenze. Ciò che è accaduto ha confermato, quasi sempre e quasi in tutti i campi, ciò che avevo previsto». Così constatava Jacques Ellul alla fine della sua vita, e sarebbero parole arroganti per un sociologo se non fossero verificabili tra le pagine dei suoi libri. E se lui non avesse aggiunto: «Non posso gioirne né essere orgoglioso: scrivevo per evitare che i miei presagi si realizzassero». Più che modestia, pacata consapevolezza di sé. A volte poter vedere in trasparenza i moti e gli alibi dell’anima collettiva - «i mostri invisibili nell’aria di tutti i giorni», per dirla con Kafka - può essere fonte di grande tristezza; Ellul, invece, li coglieva senza avvilirsi e senza ammonire. Trovava un margine di speranza anche nello studio delle derive sociali più inique e irresponsabili.
Ellul nacque a Bordeaux nel 1912 e morì pochi chilometri più lontano, a Pessac, 82 anni dopo. Fece pochi viaggi, ma amava ripetere, persino durante la sua lunga attività politica: «Sono uno straniero residente in Francia, un cosmopolita». A diciassette anni divenne l’unico sostegno dei due genitori ammalati e indigenti. «Credetti, a torto, di toccare il fondo della disperazione», disse di quegli anni in cui, comunque, si sentì «prodigiosamente libero», come lo fu in ogni momento della sua vita. La libertà era in lui organica, mai un traguardo da raggiungere o, peggio, da custodire, ma solo un punto di partenza. La lettura di Marx, durante il giovanile periodo di miseria, avrebbe potuto spingerlo tra le file dei comunisti. Accadde il contrario: diventò cristiano.
Appena intrapresa la carriera accademica, il governo di Vichy lo accusò di sovversione e Ellul si adattò a vivere da contadino insieme alla moglie Yvette fino al termine della guerra. Partecipò alla Resistenza e osservò la condotta dei partigiani comunisti verso coloro che non lo erano, concludendo: «Non ho mai capito quelli che hanno aspettato il 1968 per aprire gli occhi e vedere ciò che era il comunismo, in azione e applicazione: una radicale corruzione interna dell’uomo». Negli anni successivi nemmeno l’esistenzialismo di Sartre o il situazionismo di Debord fecero presa su di lui. Non gli rimase che diventare se stesso. Diventare cioè, nelle parole di un suo biografo, «lo studioso dei media che scoprì, prima di Bourdieu, che l’opinione pubblica non esiste (è solo consenso creato artificialmente) e colui che, pioniere dell’ecologia in politica prima di Michel Serres, ideò l’etica ambientale. Il sociologo che denunciò l’odio autodiretto dell’Occidente prima di Pascal Bruckner e che permise a Ivan Illich di concepire le nozioni di soglia di sviluppo e austerità conviviale. Il filosofo che condusse una critica alla società che prefigura le principali tesi di Baudrillard e che anticipa la mediologia di Régis Debray».
Tutto vero. Si capisce, dunque, come l’appassionato saggio che il giornalista francese Jean-Luc Porquet gli ha dedicato possa intitolarsi Jacques Ellul. L’uomo che aveva previsto (quasi) tutto (Jaca Book, pagg. 264, euro 24, traduzione di Guendalina Carbonelli). Si tratta di uno studio che compensa la mancanza di ripubblicazioni di Ellul nel nostro Paese. Mancanza grave, poiché non c’è argomento che oggi monopolizzi le pagine dei quotidiani che lui non abbia affrontato trent’anni fa in un modo attualissimo, poiché radicale. E quindi, all’epoca, molto osteggiato.
Basta aprire Il tradimento dell’Occidente, per ritrovare quella critica al relativismo e alla nostra genuflessione davanti all’Islam e alla Cina che è stata ripresa - e integralmente - solo sulla scia scandalosa dell’11 settembre: «Inutile cantare le lodi della civiltà araba, cinese o giapponese: sono esistite, certo, ma come larve, embrioni, approssimazioni, tentativi. Hanno sempre messo in luce un solo aspetto dell’insieme sociale o umano, ed hanno mirato all’immobilità. Solo l’Occidente, proprio perché era spinto dalla libertà e aveva messo in luce l’individuo, ha lanciato il tutto nella sua corsa a cui tanti, oggi, si ispirano». Parole del 1975.
Ma Ellul, in anticipo su Ratzinger, prevedeva pure le derive di un’Europa che oggi vuole liberarsi persino dal senso delle cose che fa, dal nodo divino che unisce tutto e tutti: da qui la sua critica a quella «libertà» contemporanea che altro non è se non la buona coscienza lirica del fare i propri comodi. E la sua critica a quella Tecnica ormai ausiliaria di questa “specie di libertà”: «Essa ha solo un ruolo: quello di spogliare, mettere in luce, e poi sfruttare razionalizzando, trasformare ogni cosa in mezzo... La scienza maschera tutto ciò che l’uomo aveva creduto sacro, e la tecnica se ne impadronisce e se ne serve. Nessuno scrupolo la ostacola. Fa il proprio lavoro. Essa nega il mistero, che diventa solo quanto non tecnicizzato».
Alla luce degli ultimi dibattiti su clonazione, eutanasia, eugenetica, possiamo ancora dimenticare questa (antica) allerta di Ellul? Che così commenta la psicologia degli scienziati: «Basta il più piccolo dubbio sul valore assoluto di ciò che fanno, la più misurata domanda sulla finalità del loro lavoro, che subito un dito vendicatore si punta contro l’infame che ha osato attentare alla maestria del progresso... Hanno bisogno di essere non solo gli eroi della scienza e della potenza, ma anche i martiri dell’incomprensione e del regresso. La tecnica è totalitaria. Non si pone mai il problema del bene e del male, del lecito o illecito della propria ricerca».
Nel 1962, l’«allievo» di Ellul Ivan Illich era ospite del vescovo Helder Camara, a quel tempo impegnato nell’assistenza ai poveri del Brasile. Un giorno, Camara chiese a Illich di accompagnarlo a una riunione con un generale, un pezzo grosso al quale voleva chiedere aiuto. Illich si sedette in fondo alla stanza e ascoltò il colloquio dell’amico con quello che, due anni dopo, si sarebbe rivelato - e Camara già lo intuiva - uno dei più crudeli torturatori della dittatura militare. Fu un incontro raggelante. Una volta usciti, Helder spiegò: «Ivan, non devi mai rinunciare. Fino a che una persona è viva, da qualche parte sotto la cenere arde ancora del fuoco, e tutto quello che noi dobbiamo fare» - portò le mani magre e buffe attorno alla bocca - «è soffiare.

Soffiare con attenzione e vedere se il cuore si riaccende».
È retorico dire che Ellul fa parte di quei coraggiosi intellettuali cristiani del secolo scorso - come Illich, Bonhoeffer, Chenu - che non smisero mai di soffiare. Retorico, ma anche vero.

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