
Si intitola «La via del perdono davanti al male incombente» il saggio di Julia Kristeva pubblicato sul nuovo numero di Vita e Pensiero, il bimestrale di cultura e dibattito dell'Università Cattolica del Sacro Cuore in uscita venerdì 11 luglio (numero 3 di maggio-giugno). Filosofa, filologa e psicanalista francese di origine bulgara, Kristeva riflette sul concetto di perdono: chiedere perdono per il male fatto e concedere il perdono per il male subito sono condizioni necessarie perché l'avvenire cessi di ripetere il passato e rinasca la speranza. Nel nuovo numero anche l'Editoriale di monsignor Claudio Giuliodori su «Leone XIV, un Papa mite e umile di cuore»; i contributi di Enrico Reggiani su «L'Irlanda fra cristianesimo e secolarizzazione» e di Michele Faioli su «Intelligenza artificiale e mercato del lavoro»; gli approfondimenti del vescovo e monaco cistercense Erik Varden su «Schola Dei o schola DEI? A lezione da san Benedetto» e di Nicolangelo D'Acunto su «La prima costituzione fu monastica e medievale». Infine, un intervento del cardinale José Tolentino Mendonça sul Prologo del Vangelo di Giovanni («La parola uscita dal silenzio»).
La mia esperienza di scrittrice, psicanalista e donna mi ha portato a riprendere il termine perdono tramandatoci dalla storia delle religioni e che tento di ripensare, nella convinzione che solo una rivalutazione della tradizione (con la quale abbiamo "tagliato i fili" per riprendere un modo di dire di Alexis de Tocqueville e di Hannah Arendt) può permetterci di far fronte ai "mali della civiltà". Ne conoscete i sintomi: impotenza del discorso politico, improbabile rifondazione dell'umanesimo, incontenibile crescita di integralismi, populismi, culti identitari di ogni specie, collasso dell'autorità, rifiuto dei federalismi, esplosione della pulsione di morte... Qualcuno può ancora giudicare tutto "ciò"? "Qualcuno", chi? Le democrazie costituzionali hanno bisogno di un "presupposto normativo" (Dio) per fondare il diritto razionale, e lo Stato secolarizzato non ha più un "legame unificante" (Böckenförde) che sarebbe indispensabile, secondo il giurista, al fine di costituire una "coscienza conservatrice", sia che si nutra della fede (Habermas) sia che sia una "correlazione tra la ragione e la fede" (Ratzinger).
Una situazione la cui portata è senza precedenti nella storia dell'umanità, e che Vladimir Jankélévitch ci aiuta a riprendere. Esplorando il misticismo spagnolo ho scoperto in lui un cantore di Giovanni della Croce (grande amico della "mia" Teresa d'Avila) da cui ha preso in prestito quel "non so che" che lo affascina e lo interroga; che egli ci insegna a distinguere il "giudizio morale" dal "giudizio etico" con quest'ultimo che richiede una tensione interpretativa fondata su un significato discutibile e sulla necessità di riconoscimento reciproco; e che infine ciò che egli chiama "malvagità ontologica" ci obbliga a "lottare appassionatamente contro l'oblio", con questa devastante constatazione: "Il perdono è morto nei campi di sterminio".
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L'esperienza ebraica del perdono è una notevole e unica presa di coscienza del posto dell'uomo nell'ebraismo: poiché non ci sarà solo una esperienza personale, ma una specie di resurrezione in seno alla comunità d'Israele, una teshuvà, un capovolgimento dell'essere (come quello che visse il grande filosofo Franz Rosenzweig, all'inizio del XX secolo, alla vigilia di una conversione al cristianesimo, che si fece poi impossibile). Solo il principio romano di risparmiare le vittime (parcere subiectis) potrebbe prefigurarlo ma molto lontanamente...
Questo perdono biblico implica condizioni precise: io devo domandare il perdono a colui che ho offeso, danneggiato o ferito; egli deve accettare la mia richiesta; deve perdonarmi, cioè "coprire" l'offesa, il danno o la ferita tramite una parola che lo plachi e mi plachi. Allora Dio potrà perdonarmi. Com'è prevedibile, queste condizioni sono estremamente difficili e incessantemente commentate nella Mishnà. Che fare? La Ghemarà, perfezionando la Mishnà, cerca di porre dei limiti, non per comodità ma per rendere possibile l'avvenire, per permettergli di non essere ipotecato dal male commesso e dal male subito in maniera fatale e, tutto considerato, mortale. Chiedere perdono per il male fatto, concedere il perdono per il male subito sono due condizioni necessarie perché cessi questa ipoteca, perché l'avvenire cessi di ripetere il passato e perché rinasca la speranza. Perdono e promessa sono legati in quanto modificano il tempo: uno (il perdono) apre il passato, l'altra (la promessa) stabilizza l'avvenire.
Hannah Arendt aveva ricordato che una "piccola comunità (intendiamo: cristica) molto unita di discepoli inclini a sfidare le autorità politiche di Israele" (cfr. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, 1964) porta un'innovazione eminentemente politica a tale pratica religiosa (infatti, questa innovazione accentua ciò che è già nel messaggio biblico): non solo Dio non è l'unico a perdonare, ma è per il fatto che prima gli uomini sono capaci di perdonarsi gli uni gli altri che Dio alla fine perdonerà loro.
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Prima della sua morte, negli ultimi fogli che ha lasciato nella macchina da scrivere, Hannah Arendt riprende la quarta domanda di Kant che non compare nella Critica del giudizio, ma in uno dei suoi corsi: dopo "che cosa posso sapere?", "che cosa devo fare?" e "che cosa mi è lecito sperare?", "come giudicare?". Arendt cerca di individuare un nuovo legame politico che, secondo lei, dovrebbe emergere dopo la tragedia della Shoah e che concepisce come una "comunicabilità plurale" nella "pluralità degli uomini". Ed è il gusto a esserne il fondamento: il più singolare, il più antico e il più condivisibile di tutti i sensi. Il gusto, infatti, dà inizio a una sorta di "giudizio", che non è altro che il giudizio estetico, sul quale proprio la filosofa pretende di fondare la nuova filosofia politica!
Nel frattempo, proviamo a ripensare il perdono, la promessa e la loro temporalità che la tradizione ci lascia, come altrettante condizioni di questa "comunicabilità plurale". Contrariamente a quanto il profano potrebbe immaginare, il perdono dei teologi non cancella l'orrore dell'odio e meno ancora l'orrore di questa variante estrema dell'odioche sono l'omicidio e lo sterminio: il "male radicale" secondo Kant. Il perdono non li cancella, tantomeno li giudica. Come disse Tommaso d'Aquino confrontando Giovanni Damasceno e san Giacomo, il perdono non è né una tristezza (cioè non implica una compiacenza verso l'abiezione e l'orrore), né un tribunale amoroso (che si identifica idealmente con il criminale e vuole salvarlo), ma un atto di "donazione" che "trionfa sul giudizio" che essa esalta (Somma teologica I, q. 21).
Si trattava donando il perdono di sospendere provvisoriamente il tempo dell'Io, che è il tempo dell'odio, conferendo un significato peccaminoso ai passaggi necessariamente odiosi dell'azione, e ciò facendo riferimento alla misericordia dell'Essere assoluto: a Dio. Pascal lo dice a modo suo: "L'io è detestabile... Non dobbiamo amare che Dio (in Dio)".(Traduzione di Simona Plessi)
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