Il nostro inviato invisibile che mangiava pagine e vita

Dal ciclismo alla cronaca passando per Sanremo, Giambattista Pasinetti sapeva vedere e descrivere le pieghe più nascoste dell’esistenza. Anche colpito dalla malattia più feroce ha saputo trarre ispirazione per raccontare e raccontarsi

Il nostro inviato invisibile 
che mangiava pagine e vita

Milano - Titta era uno di noi. In un certo senso, in un certo modo, lo è ancora. Qui al Giornale, molti colleghi del terzo piano sono inconsciamente convinti che sia al quarto. Quelli del quarto, che sia al quinto. Quelli del quinto, che sia al terzo. Ci aveva abituati così, nei tanti anni di lavoro per questa testata. Titta? Sarà su al quarto. Sarà su al quinto. Sarà giù al terzo. Era inafferrabile e imprendibile, stava sempre da qualche altra parte. Stava sempre dove voleva lui.

In realtà, attualmente sta qualche piano più su. Molto più in alto. Sta lì precisamente dal 12 aprile 2003, giorno in cui ha smesso di battersi cocciutamente per una causa persa, quella del cancro. Quando se n’è andato, aveva cinquant’anni. E ne dimostrava quaranta. Era l’immagine della vita leggera e spensierata, divertente e divertita. Ma questo, in fondo, non è un profilo poi così unico ed esclusivo: c’è un sacco di gente che sa come bersi la vita tutta d’un fiato, tracannandola con gusto avido, fino a quando ce n’è. Non è di questo Titta, sciupafemmine e simpatica canaglia, mille volte fidanzato e mai una volta sposato, cuore generoso e un po’ Peter Pan, che sei anni dopo si vuole qui riparlare. Il motivo è un altro: oltre che nei ricordi di chi gli ha voluto bene, adesso Titta sopravvive in un libro curato da Antonella Antonello, con la passione dell’amica devota. Il titolo è quanto di più adeguato si potesse scegliere: Dal nostro inviato (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, pagg. 183, euro 12).

La raccolta dei suoi articoli - di una piccola parte dei suoi articoli - suona certamente come omaggio all’amico scomparso troppo presto. Ma così è poco. Tutti gli amici parlano benissimo dei loro amici, meglio ancora quando sono morti. Se posso aggiungere un significato al semplice gesto d’amicizia, mi sembra giusto considerare il libro come bellissimo omaggio a un vero giornalista-inviato, soprattutto a un certo modo di essere giornalista e inviato.
È da troppo tempo che per colpa della televisione, di Internet, della free-press, cioè del giornalismo forzatamente veloce, uniformato, superficiale, anche nei quotidiani si annida il virus dell’informazione standard. C’è molta gente, tra i lettori e purtroppo anche dentro la macchina dei giornali, che non distingue più tra le sessanta righe di un verbale e le sessanta righe di un grande inviato. Tra un dispaccio Ansa e Giampaolo Pansa. È crollata la soglia del gusto, fatica a sopravvivere un’estetica della scrittura. Da qui, la convinzione che mandare in viaggio un giornalista - un inviato - per raccontare un fatto, una storia, un luogo sia inutile. C’è già tutto in agenzia, c’è già tutto in Internet, si sente dire. Ed è verissimo. Per chi non sappia distinguere la differenza, esiste già tutto a portata di mano, sul video della scrivania.
Il problema è che un fatto, una storia, un luogo raccontati da un bravo inviato risultano immensamente più interessanti, chiari, gradevoli, godibili. Il problema è anche che l’inviato deve essere un bravo inviato, non un turista per caso. Ed è a questo punto che bisogna tornare a Titta Pasinetti: al di là di qualsiasi indulgenza legata alla sua scomparsa, Titta apparteneva alla specie protetta dei veri inviati. Di quei giornalisti che hanno occhi e scrittura particolari, unici nel loro genere, diversissimi da tutti gli altri. Di quei giornalisti che fanno dire al proprio direttore, al proprio amministratore delegato, sì, stiamo spendendo bene i nostri soldi: questi articoli ne valgono davvero la pena. Perché non si trovano né in agenzia, né su Internet, né in qualunque altro posto del mondo.
Fosse l’amato ciclismo dei Giri e dei Tour, fossero i festival di Sanremo, fossero i costumi reali e surreali d’Italia, Titta raccontava a modo suo. Con la brillantezza e l’acume dell’inviato vero. Regalando ai lettori un buon motivo, la mattina, per acquistare ancora un giornale, anche dopo aver visto mille notiziari tv e mille pagine Internet la sera prima. Certo aveva i suoi difetti, altro che se ne aveva: come un numero dieci, si prendeva le sue pause. Giocava a fiammate. Era pure un impareggiabile tiratardi (a generazioni di capi sono saltati i nervi, almeno una sera). Però aveva talento cristallino, quel numero dieci di nome Titta. Persino alla fine, persino dalla malattia più feroce ha saputo trarre un articolo coraggioso e accorato, proprio quello che qui ri-pubblichiamo, con la tenerezza e il rispetto dovuti al testamento ideale del giornalista di razza.
Si dice che questo genere di giornalisti sia una specie in via di estinzione, sepolta dalla mediocrità di troppi editori e di troppi direttori. Per fortuna, al Giornale non è ancora così: qui c’è un direttore che ancora sa riconoscere, pesare e apprezzare i Pasinetti. Non ho la controprova, ma sarei pronto a scommettere: se Titta fosse qui, a portata di mano, non avrebbe modo di esercitare la sua magica arte dell’invisibilità.

Al quarto o al quinto piano, ovunque si trovasse, Giordano lo braccherebbe e alla fine lo chiuderebbe in un angolo, senza possibilità di fuga. Certamente gli assegnerebbe molte missioni, per il gusto di avere sulle sue pagine molti articoli gustosi, tutti marchiati con un timbro unico e inconfondibile: «Dal nostro inviato».

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