La fretta è cattiva consigliera. Gli italiani lo sanno e si regolano di conseguenza. Nel novembre del 1987 un referendum popolare bocciò l'energia nucleare provocando la definitiva chiusura delle centrali atomiche allora attive; quasi ventotto anni dopo il nostro paese non ha ancora deciso dove mettere i rifiuti derivanti dello smantellamento dei reattori. Il 2015 sembrava l'anno giusto quantomeno per avviare il problema a soluzione. E invece, per l'ennesima volta, aumentano i dubbi che si riesca a fare qualche progresso concreto. Il risultato è che, in attesa di trovare loro una sistemazione definitiva, i rifiuti radioattivi rimangono degli orfanelli senza casa: o restano in giro per la Penisola, stipati in 23 siti «provvisori» (a volte in condizioni francamente preoccupanti); o vengono esportati all'estero (Francia e Gran Bretagna), dove c'è chi, in cambio di denaro sonante, accetta di tenerseli per un po' e di trattarli, sempre in attesa che gli estrosi italiani stabiliscano finalmente che cosa farne.
A metterci un po' di premura ci ha provato l'Unione europea: nel 2011 ha dato il via libera a una direttiva, «per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi» con la quale chiedeva a ogni singolo Paese di fare un inventario del materiale atomico prodotto e di predisporre un programma e dei tempi per il suo smaltimento. Nel 2014 la Direttiva fu recepita dal Parlamento che stabilì, con tranquilla sicurezza, che il «Programma nazionale» di cui parlano le norme europee avrebbe dovuto essere approvato entro il 31 dicembre scorso. Ovviamente non ci siamo riusciti. E non abbiamo nemmeno rispettato la scadenza, un po' più lasca, stabilita da Bruxelles, quella del 23 agosto 2015. Non è un dramma, ha spiegato il ministero dello Sviluppo economico, Federica Guidi, visto che numerosi altri Paesi europei sono inadempienti come noi.
Il dramma (o farsa, a seconda dei punti di vista) è invece la vicenda del cosiddetto Deposito unico nazionale, il sito da costruire, sicuro e tecnologicamente avanzatissimo, in cui immagazzinare una volta per tutte e con ogni garanzia del caso le scorie nucleari. Se ne parla almeno del 1999, da quando è stata costituita la Sogin, la società pubblica a cui fu affidato l'incarico di «smontare» le centrali nucleari e di smaltire tutto il materiale radioattivo a esse legato. Nel 2003 i tecnici della Sogin individuarono la località giusta per superare definitivamente l'impasse: Scanzano Jonico, paese di settemila abitanti sulla costa lucana. Il progetto era quello di costruire un mega bunker dove infilare le scorie radioattive a 900 metri di profondità, protetto dagli strati di argilla e salgemma che costituiscono il sottosuolo della zona. Dal punto di vista tecnico il progetto aveva probabilmente un senso. Ma gli abitanti della Basilicata non erano d'accordo. Dopo alcuni giorni di manifestazioni di massa, il Parlamento, che doveva dare il via all'opera, tornò sui suoi passi e incaricò i tecnici di trovare una nuova soluzione entro 12 mesi. Di anni ne sono passati più di 10 ma il problema è ancora sul tappeto.
Col tempo si è fatta strada l'idea che una procedura come quella seguita per Scanzano, e cioè una decisione presa dall'alto, sia fatalmente destinata a scontrarsi contro il muro delle proteste e dei pregiudizi. La decisione è stata quella di avviarsi lungo un'altra strada, più «partecipata», per coinvolgere le autorità locali e informarle sui vantaggi di un sì al «magazzino» delle scorie nucleari. La grande attrattiva del Deposito nazionale sta nel fatto che è una delle opere di maggior peso economico previste per l'Italia dei prossimi anni. Gli investimenti previsti sono pari a 2,5 miliardi di euro: 1,35 per la costruzione e le infrastrutture, 1,15 per la realizzazione di un parco tecnologico legato al deposito e per l'avvio dei progetti di ricerca. Si parla di migliaia di occupati per gli anni necessari alla costruzione (cinque) e di 700 posti di lavoro fissi (molti da ricercatore e da tecnico) una volta che l'opera sarà entrata a regime. Roba in grado di dare una svolta all'economia di più di una zona d'Italia.
La procedura prevista dalla legge (approvata nel 2010) è partita in gennaio: la già citata Sogin, che ha anche avviato una campagna informativa e pubblicitaria, ha trasmesso all'ente di controllo del settore, l'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) una «Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee» per ospitare il deposito nazionale. Il documento, con le osservazioni dell'Ispra, è stato poi inviato ai ministeri dello Sviluppo economico e dell'Ambiente che dovevano dare entro la primavera il via libera alla pubblicazione della Carta. E qui si è verificato il primo intoppo. I due ministeri hanno fermato tutto e chiesto un supplemento di informazioni tecniche. I maligni hanno messo in relazione il rinvio con le elezioni amministrative del 31 maggio scorso. La carta è costruita sulla base di una serie di criteri di esclusione (niente zone sismiche, aree a meno di 5 chilometri dal mare, vicine a fiumi, grandi città, importanti arterie stradali o ferroviarie a rischio alluvioni a frane, oltre i 700 metri dal livello del mare). Mettendo in fila tutti questi parametri viene scartato più o meno il 99% della superficie della Penisola e rimangono in gioco un pugno di aree, soprattutto in Puglia, Basilicata, Toscana e Lazio. Pubblicizzare i nomi delle zone candidate appena prima del voto avrebbe potuto provocare nelle aree interessate una sollevazione. Tutto bloccato, dunque e nuovo giro di carte tra Sogin e Ispra, che in estate hanno presentato i ri-approfondimenti del caso ai due ministeri interessati. In base a una scadenza fissata dalle norme (a dir la verità solo indicativa) i dicasteri avrebbero dovuto dire la loro entro il 20 agosto. E invece hanno mantenuto un rigoroso silenzio. Né, a quanto pare, una pronuncia è prevista in tempi brevi, visto che, chiarisce un portavoce, «non sono previsti orizzonti temporali precisi».
La pubblicazione della Carta per cui si aspetta il sì dei ministeri è, tra l'altro, solo il primo passo. La legge prevede che nelle fasi successive i comuni che ricadono nelle zone idonee possano presentare delle manifestazioni di interesse e che si apra un negoziato con gli organismi coinvolti. Se poi nessuno si offrirà è prevista un'iniziativa autonoma del governo. Questo step della procedura dovrebbe durare circa quattro anni, a cui si aggiungono i cinque della costruzione, per cui se tutto va bene il Deposito dovrebbe andare a regime nel 2024. Più o meno in tempo per riprenderci il combustibile delle vecchie centrali nucleari che abbiamo trasferito in Gran Bretagna e Francia e che i due Paesi hanno accettato solo a condizione prima o poi di restituircelo.
Visto che siamo in Italia ci sono un altro paio di elementi a complicare il quadro e mettere ulteriormente in dubbio la già lontana scadenza. Il primo è il peso della politica, o meglio della sotto-politica. A guidare Sogin sono un amministratore delegato, Riccardo Casale, e un presidente, Giuseppe Zollino, che sembrano cane e gatto. In almeno un'audizione parlamentare l'uno ha smentito l'altro, nel tentativo di spiegare i ritardi accumulati dalla società nelle attività di smaltimento dei rifiuti nucleari. Nei rapporti con i ministeri, anziché parlare con un'unica voce come rappresentanti dell'azienda, spesso interloquiscono separatamente, complicando già complesse questioni. Tanto è bastato per spingere un gruppo di senatori della Commissione industria, guidati da Massimo Mucchetti, a scrivere una lettera ai ministri dell'Economia e dello Sviluppo economico in cui si esprimono preoccupazioni per il futuro della società. Il fatto poi che Zollino e Casale siano stati nominati da Enrico Letta ha contribuito ad alimentare negli ultimi mesi le voci su un commissariamento «renziano» del gruppo incaricato dello smaltimento nucleare.
L'altro ostacolo sulla strada del Deposito nazionale è un'incongruenza legislativa. Le norme che istituiscono il sito unico per le scorie nucleari parlano di deposito «definitivo» per i rifiuti di prima e seconda categoria (quelli ad attività medio-bassa o a vita breve), e di deposito «provvisorio» per quelli di terza categoria (la cui reattività decade anche dopo migliaia di anni). I criteri di esclusione sui cui è stata elaborata la cartina delle zone idonee in via di pubblicazione sono stati invece approvati per i rifiuti di prima e seconda categoria. Un sicuro cavallo di Troia per futuri e immancabili ricorsi.
A parzialissima consolazione della telenovela «Deposito nazionale» è il fatto che quasi ovunque nel mondo il problema delle scorie nucleari spinge cittadini e politici a unirsi nel nome della sindrome Nimby, («not in my backyard», non nel mio giardino), e a dare il peggio di sé. Negli Stati Uniti, per altri versi un esempio di razionalità amministrativa, il posto giusto per costruire il deposito delle scorie radioattive era stato individuato sotto la Yucca Mountain, a 130 chilometri da Las Vegas, nel deserto del Nevada. Per costruirlo sono già stati spesi 15 miliardi di dollari, ma nel 2009 il presidente Obama ha bloccato tutto. Motivo: la promessa fatta a Harry Reid, leader dei senatori democratici, eletto proprio in Nevada, per assicurarsi il suo appoggio nel processo di scelta del candidato democratico alla presidenza. Da allora gli Usa, come l'Italia, hanno il problema di dove sistemare, provvisoriamente, i rifiuti nucleari. In almeno un caso la provvisorietà ha portato al disastro: a Hanford, nello stato di Washington, il materiale radioattivo è arrivato fino alla falda acquifera. La decontaminazione, attualmente in corso, vede impegnate 11mila persone, costa tre miliardi all'anno e non finirà prima del 2046.
Nulla del genere è ipotizzabile in Italia, anche se qualche caso che induce alla preoccupazione c'è. Statte, piccolo centro nell'immediata periferia di Taranto, ospita dal 1984 un deposito di rifiuti radioattivi di origine ospedaliera e industriale: in tutto 4mila fusti per oltre 1.100 metri cubi di scorie. Il magazzino, per le vicende giudiziarie della società che lo gestiva, è chiuso dal 2000 e affidato a un custode del comune, all'apparenza non proprio l'organismo più adatto ad occuparsene.
«Qualche mese fa siamo andati a visitarlo e la situazione non era esattamente tranquillizzante», spiega Alessandro Bratte, presidente della Commissione parlamentare sui rifiuti. «Siamo riusciti a ottenere uno stanziamento di dieci milioni per la bonifica che è stato inserito nel decreto Ilva. Ora manca solo che il Commissario straordinario scriva la delibera per indire la gara». Speriamo bene.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.