Adolfo Urso*
Nessun alibi. Non è colpa dell'euro che è stato ed è una scommessa vincente, comunque doverosa, e a cui non si può certo rinunciare, né tanto meno del Wto, una delle poche organizzazioni mondiali che funzionano.
E non bisogna nemmeno nascondersi dietro lo spauracchio della Cina, che è certamente un problema soprattutto quando utilizza le «armi illegali» della concorrenza sleale e della contraffazione, ma che è al contempo anche una grande opportunità. Le nostre esportazioni hanno perso quota, scendendo dal 4,6% al 3,1% dal 1995 al 2004, perché il mondo si è allargato e altri soggetti competono e non possiamo far finta di nulla.
La Cina, senz'altro, ma anche l'India e molti Paesi in via di sviluppo, come il Brasile, stanno cavalcando l'onda lunga della ripresa. Mentre l'Europa è ferma sulle proprie gambe e stenta a innescare la marcia dello sviluppo. Ma ciò che nessuno nota, soprattutto quando si parla dell'Italia, è che la nostra produzione è in profonda fase di trasformazione. Perché mentre la quota del nostro commercio mondiale è diminuita, come è naturale che fosse per la presenza di questi nuovi e agguerriti competitor, allo stesso tempo la quota espressa in valore è rimasta stabile dal 2001 a oggi al 4%. Questo vuol dire che le nostre esportazioni si stanno sempre più indirizzando sulla strada della qualità quindi anche su un più alto livello tecnologico e non sulla mera quantità come poteva accadere al tempo della «liretta».
Come dire: la Fiat esporta tre Panda in meno, ma di sicuro una Ferrari in più. È quindi in atto una riconversione produttiva e tecnologica, il made in Italy sta lentamente cambiando faccia. Anche perché se restassimo ancorati ai nostri settori di produzione, dal tessile alle calzature, dall'arredo alla meccanica senza innovare e senza puntare sulla qualità finiremmo per coprire fasce di mercato in cui vincerebbero necessariamente i Paesi in via di sviluppo. Detto in modo più semplice e per continuare con l'esempio della Fiat, questa non deve competere con la Faw Hongta Yunnan, la casa automobilistica cinese che fa vetture da 4 mila euro, semmai con i grandi marchi mondiali, dalla Renault alla Volkswagen: puntando con decisione sull'innovazione tecnologica, sul prezzo maggiorato perché maggiore è la qualità.
Il governo, da parte sua, deve stimolare la ricerca e ridurre gli oneri fiscali e le rigidità che pesano sulla competitività delle nostre imprese.
Tagliando l'Irap, quindi, ma non con un intervento a pioggia. Semmai partendo proprio da quelle aziende che fanno un'internazionalizzazione attiva e che sono capaci di sviluppare ed esportare all'estero il proprio marchio. L'Italia che cresce è quella delle medie imprese, multinazionali che fanno leva sul marchio e sul marketing, capace di competere a livello globale su segmenti di mercato ad alto valore.
C'è, poi, il grande problema, spesso enfatizzato dei media, della nostra bilancia commerciale: che è sì in rosso, ma il cui deficit è causato essenzialmente dall'import energetico. Gli ultimi dati parlano chiaro: le nostre esportazioni nel primo semestre sono cresciute ad un ritmo del 7-8%, sia nel Vecchio Continente che fuori dai confini europei, solo che le importazioni sono aumentate tra il 9 e il 10%, e oltre la metà di questa crescita è dovuta ai prodotti energetici.
Insomma, paghiamo una tassa in più rispetto agli altri nostri partner commerciali che da anni hanno risolto il problema del fabbisogno energetico puntando non solo su fonti alternative al petrolio ma anche al nucleare sicuro. Una strada che, a torto, noi abbiamo abbandonato.
*Vice ministro alle Attività produttive
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