La trasformazione è così drastica che il mondo ancora non se ne capacita. Dall’11 settembre per tutti George Bush era il presidente cow-boy. I suoi modi erano decisi, spesso bruschi: eri con lui o contro di lui. I suoi programmi ambiziosi: voleva esportare la democrazia in tutto il Medio Oriente e rimuovere, una volta per tutte, i dittatori che per decenni hanno frenato lo sviluppo della regione a dispetto delle sue immense risorse petrolifere. I suoi metodi perentori: era convinto che la libertà e il rispetto dei diritti umani si potessero imporre anche con la forza. Ma al vertice del G8 di San Pietroburgo è apparso un nuovo George Bush: moderato, ragionevole, realista. Ha cambiato idea? Non esattamente. I suoi obiettivi di lungo termine sono immutati, a cominciare, ovviamente, dalla guerra totale al terrorismo. A cambiare è la sua visione della realtà. Si è reso conto che il mondo è terribilmente complesso e che non basta guidare l’unica vera superpotenza globale per esportare una rivoluzione che ha rigenerato l’Occidente dopo gli orrori del nazismo, ma che non tutti sono pronti a recepire.
Ha fatto due conti, il presidente: si è accorto che gli interventi militari condotti dopo gli attacchi di Al Qaida sono costati 300 miliardi di dollari; eppure il mondo non è migliore di prima. Al contrario: oggi gli Stati Uniti sono meno forti e credibili rispetto a cinque anni fa. E, paradossalmente, subiscono crisi che loro stessi hanno innescato, senza volerlo. Come nel 2003, quando una guerra che molti esperti dell’Amministrazione americana non volevano, fu fatta lo stesso. Oggi, mentre l’Irak sprofonda nella guerra civile, ci si accorge che la vera minaccia non era rappresentata da Saddam Hussein, ma dal regime iracheno. E che Teheran ha approfittato di questi tre anni per accelerare i piani della costruzione dell’atomica e per ramificare i propri contatti con le organizzazioni terroristiche che oggi insanguinano il Medio Oriente: le bande sciite in Irak, Hamas, Hezbollah. O come all’inizio del 2005 quando l’America ha spinto la rivoluzione dei Cedri in Libano, che ha costretto le truppe siriane a porre fine all’occupazione militare. Ma quel successo non è stato sostenuto da un adeguato piano di sviluppo politico, militare e civile del Paese. Il governo di Siniora è sì democratico, ma include due ministri di Hezbollah e né Washington né gli europei hanno sollevato con la dovuta decisione la questione del disarmo delle milizie del partito di Dio. Un anno e mezzo fa solo pochi, inascoltati osservatori israeliani avevano previsto quel che oggi appare evidente: con il ritiro dei soldati di Damasco veniva a mancare l’unica forza della regione che gli Hezbollah hanno sempre rispettato e l’unica in grado di fornire garanzie a Israele. O, infine, come nel gennaio 2006, quando Washington ha sollecitato Abu Mazen a indire nuove elezioni palestinesi, che però sono state vinte dai fondamentalisti islamici di Hamas ovvero da chi la pace con Israele non la vuole. La lezione è stata amara, ma è stata recepita. Ed è quel che conta.
Bush ora è consapevole che in un contesto difficile come quello mediorientale qualunque trasformazione deve essere graduale e va calcolata con estrema cautela. Ha capito che, per quanto forte, l’America da sola non ce la fa. E che ha ancora bisogno di amici e di alleati fidati, come quelli del G8. E allora ecco l’altro Bush, quello che a San Pietroburgo debutta affermando, durante la conferenza stampa con Putin, che «un Paese non deve trovare da solo la soluzione dei problemi, ma concordarla assieme ai partner». E che proprio con il presidente russo ha ottenuto i risultati più significativi: il capo del Cremlino voleva che gli Usa riconoscessero la rinascita della Russia? Bush lo ha accontentato. Quando ha dichiarato che «Vladimir è un leader forte e non ha certo bisogno dei miei consigli per gestire la Russia», ha spazzato via due anni di diffidenza e di sospetti. Ma soprattutto ha posto le premesse per una nuova fase di cooperazione sui temi più scottanti dell’attualità internazionale. Uno su tutti: quello del nucleare iraniano, sul quale ora Mosca e Washington sono più vicine. Anche l’accordo sulla crisi israelo-libanese porta il sigillo di Bush. Ha iniziato a voce alta, il presidente americano, respingendo qualunque critica a Israele, ma poi ha dato mandato ai suoi collaboratori di trattare con gli altri partner e alla fine ha consentito una dichiarazione unitaria, che, pur non lesinando gli inviti a Olmert alla moderazione, addossa la responsabilità della crisi agli Hezbollah. Bush è piaciuto persino a Chirac. Un piccolo capolavoro. E non è che l’inizio.
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