Elsa Airoldi
Ciuffo allora nero e oggi bianco, l'abbiamo conosciuto re del flauto dolce a San Maurizio. Era un innamorato della musica, un ricercatore affamato di fonti, un'anima segnata dal candore, un testa attratta sopra ogni cosa dal desiderio di conoscenza. Lo rincontriamo adesso, in occasione del concerto che dirigerà lunedì prossimo alla Scala per la Stagione della Filarmonica. Non è cambiato in nulla. È sempre il Frans Brüggen con il quale non ti stancheresti mai di parlare. Per sentire, capire, penetrare nei solchi più segreti della musica. Il bene supremo che lui dimostra di aver fatto completamente suo.
Brüggen, massimo esperto di letteratura barocca divulgata da più di vent'anni assieme alla sua Orchestra del '700 (fondata nell'81 sul mitico modello di Mannheim), è sinonimo di filologia. Un termine che mette soggezione e forse sa di vecchio. Ma la sua filologia è solo amore e lui, come disse bene il suo amico Berio, non è un archeologo ma un grande artista. La Filarmonica alla ricerca di una nuova identità ha rivolto al maestro un invito (il primo della storia della Scala) che sa di sfida. È vero, in questi giorni nei corridoi della Scala vaga anche un suo simile, John Eliot Gardiner a sua volta alle prese con la Filarmonica versione Sinfonica. Ma è tutt'altro film. Infatti.
Qual è la differenza tra lei e Gardiner?
«Il repertorio di Gardiner è operistico
certo, (aggiusta il tiro), il Monteverdi Choir e l'Englis Baroque sono complessi stupendi».
Brüggen è uno che alla musica da del tu. «Mi dia una mano. Vede, così», e ci appoggia sopra la sua. «La musica è umana. A un interprete sono indispensabili pochissime cose. Conoscere il musicista e l'ambito nel quale si muove. Cioè gusto, moda, strumentale, tecnica, prassi esecutiva, font». La musica deve essere viva, l'interprete la deve improvvisare così come Bach, Mozart, Beethoven e persino Stravinskij, oltre ovviamente a Duke Ellington, la improvvisavano componendo. Per suonarla l'orchestra deve essere calata nei parametri che si diceva. Quello che conta è la testa. In tale senso è paradigmatico che non esistano registrazioni di Brüggen in studio, dove la musica diventerebbe un fatto meccanico. Tutto live.
Ci parla della sua Orchestra del '700: i professori sono una sessantina, sempre gli stessi e provenienti da tutto il mondo. «Invecchiamo assieme e a un certo punto si areneranno come natura comanda». Si trovano ad Amsterdam tre volte all'anno, provano dieci ore al giorno per una settimana e poi vanno in tournée. Quando suonano «improvvisano». La '700 è «comunista». Insomma niente plusvalore e niente sovvenzioni. Alla fine dell'anno si fanno i conti e si divide in parti uguali.
Com'è possibile che Bach improvvisasse?
«Ci sono le prove, parti scritte a poche battute per volta. Anche le sinfonie di Beethoven sono scritte improvvisando al pianoforte. Io sono in grado di indicare il punto esatto in cui s'era interrotto domandandosi come continuare. La consuetudine dell'improvvisazione nasce dal fatto che gli archivi sono pieni di materiale. Ma totalmente privo di indicazioni. Noi tuttavia sappiamo che nel Settecento ogni pagina chiudeva in calando. Mentre il trionfalismo ottocentesco risolve con esclamazioni rivolte verso l'alto. Insomma la musica è umana. Si può toccare. Non è la mummia di Stalin ma un umile milite ignoto».
Difficoltà con i Filarmonici scaligeri?
«Sono un'orchestra classico-romantica, dunque abituata a dimensioni diverse, al vibrato. Per ora abbiamo lavorato sul non-vibrato
Quanto all'organico tra aggiunti e esigenze acustiche arriveremo alla sessantina».
Come mai chi coltiva l'antico ama anche il contemporaneo?
«Sono la stessa cosa. Musica viva, da scoprire. Infatti i due repertori attirano i giovani».
E l'Orchestra of the age of Enlightement, l'Orchestra illuminista? Non l'ha fondata lui, che tuttavia assieme a Rattle, ne è il «principalissimo» Il repertorio di Brüggen va da Purcell a Berlioz escluso. Dopo l'orchestra diventa moderna.
«In Mozart arte e vita non scorrono affatto parallele. L'Amadeus di Forman in tal senso è un vero capolavoro».
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