
Ahi, ahi, AI! L’hype si è ammosciato? Vediamo un po’. Il Guardian del 25 agosto ha raffreddato l’entusiasmo con un titolo che vale più di un report di McKinsey: “Is the AI boom finally starting to slow down?”. Dentro c’è lo studio del MIT che dice chiaramente che il 95% dei progetti aziendali in AI non ha prodotto benefici concreti, e cioè che il grande entusiasmo degli ultimi due anni si traduce per ora in un enorme spreco di budget e slide (con il paradosso di TikTok che usa l’AI non per liberare creatività, piuttosto per licenziare moderatori umani, vabbè, sapete come la penso di Tik Tok).
Tuttavia il quadro non è così netto, le cose sono sempre complesse, le cose complesse ancora più complesse. Lo stesso rapporto del MIT racconta la cosiddetta “shadow AI economy”: mentre i progetti ufficiali falliscono, oltre il 90% dei dipendenti usa ChatGPT o Claude sottobanco per lavorare meglio, anche se l’azienda non lo sa. Un dettaglio importante? Forse che sì forse che no. Tant’è che Raffaele Gaito, divulgatore molto attivo su YouTube, prende il dato a suo vantaggio (essendo consulente aziendale): se i dipendenti la usano, allora significa che funziona, e quindi il 95% di fallimenti andrebbe ridimensionato.
Mmm… non fa una piega, se lo scopo è piegare il dato al lavoro di Gaito. Peccato che usare non significhi integrare (e lo sa benissimo anche lui). Scrivere una mail con ChatGPT o farsi riassumere un PDF o generare un titolo LinkedIn non è trasformare la produttività, è come avere uno stagista digitale che lavora gratis (e che in ogni caso devi controllare, altrimenti in qualsiasi azienda rischi di fare piccoli e grandi casini). Tuttavia capisco che se il tuo mestiere è vendere la rivoluzione come già in corso, anche quando i numeri dicono il contrario, ci sta.
Nel frattempo Ennk con il suo “AI senza Hype” non fa sconti, anche perché da ricercatore non ha interessi se non leggersi quintali di paper e renderli digeribili per esperti e meno esperti (con video imperdibili, come la sua seguitissima rubrica Technicismi). Ribadisce che i numeri del MIT sono credibilissimi, perché descrivono quello che si vede: progetti costosi che catturano l’immaginazione più che il bilancio e l’uso reale che resta ancora molto frammentario (molto molto più di quanto sembri a chi creda che oggi sia tutto AI quando al contrario stanno emergendo molte criticità).
Tra l’altro il mercato aggiunge un’altra nota a margine, di segno opposto: l’ultimo articolo di Reuters, intitolato “Nvidia CEO says AI boom far from over”, conferma che la rivoluzione non è affatto tramontata. Jensen Huang ha rilanciato: 3-4 trilioni di dollari di investimenti in infrastrutture AI entro il 2030, con gli hyperscaler pronti a spendere. È la prova che la traiettoria c’è, ma è più lenta e costosa di quanto i consulenti e i palchi da conferenza e chi deve fare video su Youtube per convincere le aziende vorrebbero far credere.
Senza hype, da scrittore curioso e osservatore esterno, non ho dubbi: l’AI cambierà davvero i processi e i mercati, però non con la velocità che ci stiamo raccontando, come in fondo successe con internet. Non è che Google o Amazon siano nati insieme al web, il quale esisteva già negli anni Settanta (remember ARPANET?), nel 1983 nasceva internet con il protocollo TCP/IP (quando noi bambini nerd al massimo programmavamo giochi in Basic, e non c’era niente di realmente online), Amazon arriva nel 1994 (come libreria online e scommessa di Bezos), Google nel 1998, e solo negli anni Duemila si comincia a parlare seriamente di Web Economy, e-commerce, social network, pubblicità digitale e via dicendo, fino a Facebook (2004, ormai il social dei vecchi) e Youtube (nel 2005) e non avevamo ancora visto il primo iPhone. Quanto tempo eh? (Relativamente parlando, nell’arco del progresso tecnologico umano è un lampo, va da sé, ma la stessa specie umana c’è da pochissimo, duecentomila anni su quattro miliardi di anni di vita su questo pianeta, nella scala della vita “l’uomo è solo la vernice della punta che ricopre la punta della Torre Eiffel”, per usare una metafora di Mark Twain che rende molto l’idea).
Stessa cosa varrà con l’AI, con le sue accelerazioni e decelerazioni, indipendenti dagli entusiasti o meno. Quando smetterà di essere un circo mediatico e diventerà parte invisibile dei meccanismi, si potrà parlare di rivoluzione, e quando la rivoluzione arriverà, arriverà senza annunci (lo stesso Sam Altman ha imparato il pericolo degli annunci roboanti), perché non c’è mai un giorno preciso in cui qualcuno dice “oggi c’è la rivoluzione” (tranne nelle rivoluzioni politiche, che finiscono sempre male): ci accorgeremo che è già lì, che è già successa, mentre eravamo occupati a guardare da un’altra parte.
Se poi tutto andrà male, come sostengono i soliti apocalittici non integrati, sarà come nella citazione dei Talking Heads che Breat Easton Ellis mise all’inizio di American Psycho: “E quando tutto andava a catafascio, nessuno ci faceva tanto caso”.