Il nuovo chiodo fisso dei politici: ecco il tormentone del «territorio»

È un po’ come se tutti si fossero messi a giocare al «Risiko» politico. E a tutti è capitata la carta del «conquista i territori». Non solo alle armate verdi leghiste, che da sempre tirano i dadi per vincere questa battaglia. Ma pure a quelle rosse, dimentiche delle «masse» e del «proletariato», e a quelle azzurre, che sulla carta d’identità fanno «moderati» di nome e «liberali» di cognome. Tutti uguali, tutti uniti sotto l’ombrello molto di moda del «territorio».
Ormai è un tormentone, una specie di Macarena. Viene citato in tutte le salse, a tutte le ore. Lo idolatrano, lo vezzeggiano, lo sbandierano. Più che una parola d’ordine, è diventato una mascotte sballottata tra comunisti, ex fascisti, cattolicissimi e federalisti. Dal Quirinale in giù, tutti pazzi per il territorio, pure quelli che vivono più a Strasburgo che tra le osterie del centro. Perché Confucio avrà pure detto che «chi conosce il territorio ha più possibilità di vittoria in battaglia», ma qui è passata l’idea che, per vincere, il territorio basta recitarlo come un mantra.
Si parte da Giorgio Napolitano, che recentemente ha preteso «risorse contro il dissesto del territorio» e si è lanciato in un’apologia del federalismo. Napolitano, ex Pci partenopeo, torna alla terra insieme a Romano Prodi, che ha tuonato contro il suo Pd, colpevole di «rapporto troppo debole con il territorio». Cose che il sindaco democratico di Torino, Sergio Chiamparino, va ripetendo da anni: «Bisogna fare quadrato e ripartire dal territorio». In attesa di ripartire, pure Pierluigi Bersani ci è arrivato, inventando il partito «bocciofila», in grado di «esprimere le forze del territorio». Last but not least Fabrizio Cicchitto, che l’altra sera a Porta a porta ha invitato il Pdl a recuperare col territorio «un più penetrante rapporto», subito dopo che il neo governatore del Piemonte Roberto Cota, alleato del Carroccio, aveva ribadito che è proprio grazie al territorio che la Lega vince le elezioni.
Insomma, pare che tutti stiano imitando i leghisti. Quelli dei dialetti e dei riti con l’acqua del Naviglio sotto casa. Dissacràti e sfottuti come bifolchi paesanotti salvo poi correre tutti a chiedere in prestito le loro stesse armi lessicali. Però, senza l’impegno concreto, i discorsi territoriali non sono molto più sensati delle «supercazzole» di Amici miei. Già, perché un conto è chi sul territorio ci sta e lavora. Un altro è chi di territorio straparla, sganciando il significante dal significato. Con il «territorio» che diventa un azimut impalpabile. Lo si cita al Nord, con la friulana Serracchiani che vaticina arguta: «Il territorio va ascoltato in modo più approfondito per sviluppare politiche territoriali». Lo si cita a Sud, con il neogovernatore calabrese Scopelliti che vuole ridurre la ’ndrangheta a «rumorosa minoranza sul territorio» e con la campana Mara Carfagna che vuole «restituire al territorio abbandonato la possibilità di crescere». Territorio uno di noi, territorio mon amour. Passi l’uniformità geografica dell’epidemia, ma la territorialìte - l’infiammazione dell’originalità che si manifesta con un prolasso di discorsi tutti uguali - ora è anche politicamente uniforme. Si sono ammalati perfino cosmopoliti come Nichi Vendola, che ha abbracciato la sua Puglia, a cui lo lega «una storia d’amore che ha invaso il territorio della politica»; hanno beccato il virus internazionalisti doc come tovarish Ferrando del Pcl: «Centrodestra e centrosinistra sono poteri forti intercambiabili sia a livello centrale, sia sul territorio». Nessuno è vaccinato. E se Beppe Grillo e Antonio Di Pietro lo citano nello stesso contesto («Noi e la Lega abbiamo successo perché siamo sul territorio»), c’è anche chi in teoria vanterebbe un diritto di prelazione, come il Verde Bonelli: «Sul nucleare difenderemo il territorio».
È come se un pulmino li avesse riportati tutti a casa da una gita su Marte. Fino a ieri gli ideali infiniti e atemporali, le utopie, i miraggi planetari. Oggi, complice la concretezza leghista, tutti a guardare nel giardinetto del territorio. Gente di destra come Maurizio Gasparri («la Bonino ha perso perché estranea al territorio»); gente di centro come la Poli Bortone («l’atteggiamento dell’Udc sul territorio è poco chiaro»); gente di sinistra come il governatore ligure Burlando («si vince solo col lavoro sul territorio»). Fino a Silvio Berlusconi: «L’amore ha prevalso grazie alla mobilitazione del territorio».
Il territorio è ovunque, come il Nulla della Storia infinita.

È nei necrologi di Edmondo Berselli, «brillante critico del territorio»; è nei discorsi del cardinal Bertone sui «riti radicati nel territorio cileno», è pure nelle parole di Izzedin Eldir, capo dell’Ucoii, che pretende «un lavoro sul territorio». Non ci sono confini. Nemmeno il buon senso. Col rischio di perdersi nei propri pensieri, l’unico territorio veramente inesplorato.

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