Obama e la strategia della confusione Così l'America è rimasta senza voce

Un vero e proprio fallimento diplomatico: la Cia ha sbagliato tutte le previsioni. Le scuse: "Ma noi ci basavamo sui media"

Obama e la strategia della confusione 
Così l'America è rimasta senza voce

Obama come Amleto non riesce a fare i conti con il suo fantasma. Lo spettro di Jimmy Carter, da molti evocato, continua ad aggirarsi nei palazzi della sua presidenza. Jimmy il democratico, Jimmy pasticcione geopolitico che naufraga sulla rivoluzione iraniana e sbatte contro l’ascesa degli Ayatollah. Jimmy, semplicemente, senza copertura, navigante al buio, lasciato solo dai servizi segreti e troppo outsiders per sopravvivere a Washington. Obama deve cancellare Carter. Ma l’Egitto di questi giorni mostra cicatrici iraniane.
Mubarak se ne va, ma chi ha perso davvero è l’America di Obama. Per la prima volta gli Stati Uniti sono rimasti a guardare come spettatori senza voce. Eppure a parlare ci hanno provato. Solo, non sono stati ascoltati, praticamente snobbati. È così che l’America ha iniziato a perdere; e il giorno dell’ultimo discorso di Mubarak la sconfitta è stata evidente. Obama che dal Michigan decide di parlare al buio, un’ora prima dell’annunciato discorso di Mubarak. «Siamo testimoni della storia in marcia». Illuso Obama, è restato solo Obama. Mubarak parla ma non di dimissioni. Eppure i suoi erano certi, tutti a ripetergli che il rais se ne sarebbe andato in serata. Obama che nonc capisce deve chiedere espressamente al governo egiziano di parlare chiaro. A Washington è buio pesto. Nessuno sa interpretare, captare, analizzare. Non certo Leon Panetta, il capo della Cia, che tra i primi si era sbilanciato parlando dando per certo le dimissioni. Il presidente egiziano quasi per dispetto ha deciso di lasciare poteri e poltrona il giorno dopo. Il paradosso insomma è questo: Mubarak ha perso, ma l’America non c’entra nulla. Il ruolo dell’ultima grande potenza è stato marginale. Periferico.
Oggi si raccolgono i cocci. Dalla confusione emergono in modo impietoso le difficoltà dei servizi di intelligence americani a tenere sotto controllo la situazione dell’Egitto. La stampa e la politica americana ora puntano il dito contro un Panetta assente e confuso, con un portavoce costretto a precisare che le valutazioni le facevano leggendo i giornali e non sulle «Informative specifiche della Cia».
Eppure il fallimento diplomatico americano era nell’aria da tempo. Le prime avvisaglie sono arrivate il 29 gennaio, al termine di una telefonata disastrosa tra Obama e il re saudita Abdallah che non solo ribadiva l’amicizia con Mubarak, ma metteva a disposizione il Tesoro saudita per sostituire Washington.
La perdita di influenza americana in Egitto è partita da quella conversazione. A niente sono serviti i tentativi di ricucire di Hillary Clinton. Eppure Obama era corso ai ripari rispolverando anche Bush padre, vecchio alleato di Mubarak nella guerra del Golfo degli anni novanta. A lui il compito di fare una telefonata al rais e farlo ragionare sulla transizione. Tentativi tardivi, fuori tempo massimo.
Ora c’è chi dice che l’apocalisse Obama, quella che in pochi mesi ha distrutto la reputazione dell’America sia iniziata già nel giugno del 2009. Obama dai grandi discorsi come Carter. Ma il mondo non lo ascolta.

Il suo discorso al Cairo sulla democrazia era apparso da subito rassegnato: l’America non era più una grande potenza ma un interlocutore da sfidare. Come ha fatto il rais nel suo ultimo discorso: «Non accetteremo nessun diktat straniero». Era l’ultimo ruggito del leone. Ed era tutto per Obama.

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