Obama non può perdere il poker con Israele

Stavolta non mancherà la torta. Stavolta il presidente Obama, mentre Bibi Netanyahu vola verso Washington per incontrarlo, prepara la cena, probabilmente per domani; invece, quando a marzo il primo ministro israeliano visitò il presidente Usa, questi si alzò dalla loro gelida riunione alla Casa Bianca un minuto prima dell’ora del pasto, mettendo alla porta il collega mediorientale. E non aveva nessun altro a tavola ad aspettarlo se non la famigliola, come precisò allo stupito ospite. Fu uno scandalo, e soprattutto la prova di quanto gli Usa di Obama stessero prendendo le distanze da Israele. Adesso, alla vigilia del nuovo incontro, ci sono buone ragioni per immaginare che le cose andranno meglio, ma l’intrigo si è fatto molto più fitto e danza sempre sull’orlo del baratro.
Cosa c’è in gioco? Naturalmente il processo di pace coi i palestinesi, cui Obama tiene assai per portarne a casa almeno una nella sua tormentata politica estera. Come primo punto all’ordine del giorno per Israele per fare la pace le due parti perlomeno si devono sedere l’una di fronte all’altra e parlarsi direttamente, uscendo dall’impasse dovuta alla scelta dei palestinesi di comunicare attraverso l’inviato americano George Mitchell. È ridicolo, dice Israele, che questi compia una insensata spola fra Gerusalemme e Ramallah, attaccate l’una all’altra come sono e dopo che Bibi ha aperto i varchi di Gaza, ha sbloccato una quantità di check point, ha fatto il famoso «freezing» degli insediamenti dieci mesi fa. E l’ha anche detto: vogliamo due Stati per due popoli, ma parliamoci una buona volta. Netanyahu dunque prima di tutto chiederà a Obama di indurre Abu Mazen ad accettare di parlare direttamente delle questioni territoriali e dello status finale. Ma i palestinesi insistono che prima deve essere stabilito che gli israeliani sono disposti a lasciare tutti i territori del ’67, salvo eventuali piccoli scambi pari a poco più del 2 per cento. Insomma, vorrebbero che la trattativa la facessero gli americani, magari evitando di imporgli l’esistenza dello Stato ebraico, come richiesto da Netanyahu. Giusto due giorni fa, per dimostrare a Obama quanto sia disponibile a una politica di pace, Abu Mazen ha fatto filtrare tramite il giornale al Hayat la sua disponibilità, poi prontamente smentita ieri, a abbandonare ogni pretesa sul Muro del Pianto e sul quartiere ebraico della Città Vecchia a Gerusalemme, scambiandoli con una zona presso Hebron.
L’amo è stato calato alla stampa ebraica martedì; ma il primo ministro Salam Fayyad ha smorzato subito l’eccitazione, dicendo che per ora non vale la pena di un colloquio diretto, ognuno a casa sua. Nel frattempo della richiesta israeliana di riconoscere lo Stato ebraico non se ne parla, e la tv palestinese ufficiale seguita nella solita politica: prediche di mufti che incitano a uccidere gli ebrei, bambini indottrinati su cartine che ignorano del tutto l’esistenza di Israele. Basta vedere i documenti raccolti proprio in questi giorni dal centro studi Palestinian Media Watch.
Bibi sa che quando Obama lo incontrerà non avrà verso di lui nessuna predisposizione particolarmente affettuosa, come per esempio aveva Clinton verso Israele. Ma ha una carta in mano: lo stop imposto da lui stesso dieci mesi orsono alle costruzioni nei territori. Scade fra poche settimane, e Obama vuole fortissimamente che sia rinnovato. Ma chi assicura Bibi che questo avrebbe risultati positivi sul processo di pace, dal momento che finora è servito solo a far lievitare il prezzo richiesto da Abu Mazen per trattare direttamente? Di certo, pensa Bibi, accettando la richiesta americana sarebbe messo in questione il suo governo attuale, in cui la destra nel caso di un sì a Obama potrebbe dichiarare la crisi.
Ci sarebbe, sullo sfondo, l’opzione di disfare il governo attuale e di portare dentro il partito Kadima di Tzipi Livni: ma Tzipi per entrare vuole né più né meno che l’alternanza nel ruolo di primo ministro. Difficile da accettare, anche se Bibi non ha pregiudizi a sinistra: il suo ministro della Difesa è il socialista Ehud Barak, un tempo il primo ministro che trattò la pace fino allo spasimo a Camp David e a cui oggi sono affidati compiti di primaria importanza.
Andare d’accordo con Obama per Israele ha soprattutto uno scopo: battere, in un modo o nell’altro, la minaccia iraniana, ottenere sanzioni sempre più dure, e magari un giorno essere coperto nel caso dovesse distruggere gli impianti nucleari. Bibi, che alla fin fine è semmai disposto a cedere sul «freezing» degli insediamenti, sa che stavolta deve giocare una vera partita di poker.

Infatti Obama non è nella migliore condizione per imporre a Israele di bloccare gli insediamenti senza la contropartita dei colloqui diretti garantiti: fra meno di quattro mesi ci sono le elezioni di «mid term», Obama vede dai sondaggi che l’elettorato democratico è prevalentemente filo-israeliano; i suoi sostenitori democratici ebrei, intellettuali, giornalisti, importanti «fund raiser», potrebbero abbandonarlo se Usa e Israele dovessero di nuovo arrivare ai ferri corti. A Washington assisteremo dunque a una vera disfida politica, densa di sorrisi, madida di veleni, con finale a sorpresa.

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