Obama si sveglia solo ora: «Stop a tutte le violenze»

L’Iran brucia e Obama arriva tardi. Come un anno fa quando esplose la crisi in Georgia. Si disse allora, che il candidato democratico scontava l’inesperienza in politica estera e che era troppo concentrato sulla campagna elettorale per occuparsi delle vicende del mondo. Ma ci assicurarono allora che una volta alla Casa Bianca il suo comportamento sarebbe stato diverso.
Alla Casa Bianca ci è arrivato e si è attorniato di consiglieri qualificati, a cominciare da Hillary Clinton, ex rivale e ora segretario di Stato. E un cambiamento c’è stato, innegabile, positivo. Obama ha teso la mano al mondo, ha iniziato a tratteggiare l’immagine di un’America responsabile e pronta all’ascolto. E quando deve appellarsi ai sentimenti, alle buone intenzioni, alle necessità di conciliare posizioni apparentemente insanabili, Obama è imbattibile. Come imbattibile era Giovanni Paolo II, straordinario alfiere del Bene e della comprensione tra i popoli. Ma Wojtyla era un Papa, Obama è il presidente di quella che, nonostante un evidente declino, resta la prima superpotenza al mondo. Non può limitarsi a predicare. Deve agire, deve dimostrare di avere una visione e di sostenerla con una strategia adeguata; all’occorrenza deve mostrare i denti.
E invece da quando è esplosa la rivolta di Teheran il presidente americano è tornato ad essere quello della Georgia. Amletico, titubante, stranito. Obama non ama i conflitti personali e tende ad includere, anziché escludere. Sa coltivare le amicizie. E addolcire le inimicizie. Smussa, lima, concilia. All’occorrenza si astiene. Seguendo questo approccio ha conquistato il Senato dell’Illinois, poi quello di Washington e poi su fino alla Casa Bianca.
Il sospetto, sempre più concreto, è che sia quello anche da presidente. Durante i nove giorni della rivolta le sue dichiarazioni sono risultate di una banalità sconcertante. Ha taciuto per tre giorni, poi ha affermato che in fondo non c’era molta differenza tra Ahmadinejad e Moussavi, solo l’altro ieri si è detto «preoccupato dal tono e dai commenti della Guida suprema Khamenei» e ha autorizzato il suo portavoce Gibbs a definire «coraggiose e straordinarie le dimostrazioni di Teheran». E ieri si è spinto a chiedere al governo iraniano di «fermare tutte le azioni violente e ingiuste contro il suo popolo» e a ricordare che per ottenere rispetto all’estero deve «governare attraverso il consenso e non la costrizione». Persino l’Unione Europea, di solito difesa e inefficace, si è dimostrata più reattiva e coerente. Ha rischiato e si è schierata.
La Casa Bianca no. L’uomo che fa sognare le folle, si è dimostrato straordinariamente pragmatico. Faceva sognare anche i ragazzi di Teheran, che sono scesi in piazza dopo aver ascoltato il suo discorso del Cairo, nell’illusione che un altro Iran fosse davvero possibile. E invece Obama si è limitato a guardare. In questi nove giorni ha compiuto un solo gesto significativo, quando ha invitato i gestori di Twitter, le rete di messaggi istantanei, a rinviare l’interruzione del servizio per manutenzione per non privare i giovani dell’unico sistema di comunicazione in grado di saltare la censura. Troppo poco e troppo tardi.
L’abulia dell’America sta favorendo un regime, che a colpi di manganello cerca di spegnere l’indignazione dei giovani di Teheran.

Nove giorni e l’uomo del cambiamento si è trasformato nell’alfiere dello status quo, che non vuole avventure, non vuole rischi. E che è pronto a sedersi a un tavolo con Ahmadinejad e Khamenei, nell’illusione che, anche con loro, la pace sia davvero possibile.
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