Igor Principe
«Tornerò a fare il venticinquenne che ha appena vinto una borsa di studio. Mi dedicherò alla ricerca». Ermanno Arslan di anni ne ha quaranta di più. Ma ciò non lo demoralizza; anzi, pare instillargli nelle vene un vigore che lo aiuta anche ad uscire da un periodo in cui si è trovato a fare i conti con un cuore un po' troppo affaticato. La ricerca archeologica, mestiere che esercita da sempre, tornerà ad essere pane quotidiano da giovedì, 1 settembre, quando lascerà a Sandro Salsi l'incarico di soprintendente del Castello Sforzesco. Arslan lo è stato per sei anni, dall'11 marzo 1999.
Qual è il bilancio, professore?
«Se parliamo di bilancio fisico, diciamo che le riunioni serali, l'assenza di orari, gli oneri di una carica a dimensione pubblica hanno spremuto un organismo già segnato da un'altra esperienza poco felice, sempre al cuore. Se parliamo di bilancio professionale, è soltanto positivo. Il Castello era un edificio monumentale trattato nel modo in cui in Italia la pubblica amministrazione tratta edifici di quel tipo, ed è diventato uno dei complessi museali più importanti a Milano e in Europa».
Cosa fa la pubblica amministrazione agli edifici monumentali?
«O li dimentica, o li demolisce o li considera vuoti da riempire. Al Castello c'era un sovraccarico di funzioni prive di coordinamento. Non si sapeva chi fosse responsabile dei cortili, delle merlate, delle torri, delle scale. Nel cortile delle armi si parcheggiavano le auto, e i vigili non potevano intervenire perché non hanno competenza per l'interno di un edificio comunale. Quando molto tempo fa una ragazza è morta cadendo nel fossato interno, un cancello è rimasto chiuso, sotto sequestro, per 15 anni. Con ciò veniva meno la funzione urbanistica della struttura».
Qual è questa funzione?
«Mettere in comunicazione non solo il centro con corso Sempione, ma anche la zona Garibaldi con piazza Cadorna. Il Castello è un luogo di transito, è un elemento vivo della città. Personalmente non amo il giardino all'italiana, preferisco la concezione inglese di parco pubblico. Ecco allora che ho voluto rimuovere un altro cancello, che impediva di fruire nel modo più libero della corte Ducale, dove se ci si vuole sedere sul prato nessuno può impedirlo».
Ma con tutti i lavori di questi anni non c'è il rischio di una fruizione comunque limitata?
«Avremmo potuto chiuderlo, ma sarebbe stato un errore. Il vero rischio era un effetto Ambrosiana, istituzione che è rimasta chiusa a lungo uscendo dalla percezione della maggioranza dei cittadini, pur con l'altissimo valore del suo patrimonio culturale. E poi non avrei potuto realizzare uno dei miei obiettivi».
Quale?
«Imporre l'immagine del Castello, farlo diventare il simbolo di Milano. Devo dire che, a riguardo, la facciata del Duomo impacchettata ci ha aiutato (ride). Scherzi a parte, volevo che rientrasse nella vita dei milanesi, anche soltanto attraverso l'immagine televisiva. Insomma, se i servizi sul meteo fanno vedere che piove e inquadrano il Castello, o che fa caldo e mostrano la fontana davanti all'ingresso, è un dato positivo. Poi c'era un altro obiettivo, anch'esso raggiunto: con due o tre mostre all'anno, abbiamo portato l'edificio ad essere una macchina culturale in continuo movimento».
Quali sono stati gli ostacoli maggiori?
«La burocrazia. È un sistema tale per cui è più facile organizzare un evento da 200mila euro che portare avanti un'ordinaria amministrazione che ne costa 10mila».
Niente a che vedere con la difficoltà di promuovere arte e cultura in una città che appare all'esterno come capitale del business e della moda?
«Milano è una città strana, vivissima ma che non ama fare sfoggio di quello che ha. Per scoprire le chiese di San Satiro o Sant'Ambrogio devi andartele a cercare. Ma nel circuito accademico internazionale delle realtà culturali, la città è protagonista. È uno dei centri congressuali più importanti al mondo. Ha un Gabinetto di numismatica da 320mila pezzi.
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