«Oltre cento gol senza vedere l’azzurro»

Caro Nicola Amoruso, sa cosa abbiamo scoperto sul suo conto?
«No, cosa?»
Che lei, con 112 gol in serie A ha appena superato il suo concittadino Riccardo Carapellese, anche lui di Cerignola, fermatosi a 111 gol...
«Non lo sapevo e mi fa piacere. Così possiamo allargare la lista dei nomi famosi di Cerignola. Prima c’era solo Di Vittorio, ora possiamo aggiungere Tatarella, Carapellese e i nonni di Felipe Massa».
Caro Amoruso: 112 gol distribuiti in tredici club di serie A: è il vero giramondo del calcio italiano...
«E questa etichetta, per qualcuno, può risultare scomoda. La verità è che nel periodo in cui ero di proprietà della Juventus mi hanno spedito in giro in prestito: così ogni torneo cambiavo squadra. Credetemi sulla parola: c’è anche un risvolto positivo della medaglia. Ho molto girato, ho conosciuto persone e città diverse e non nego che almeno in una occasione, mi sarebbe piaciuto fermarmi a lungo».
Per esempio dove?
«A Genova, con la Samp. Lì ho cominciato la mia carriera, lì ho debuttato in serie A».
L’altro pezzo di famiglia è di matrice napoletana, no?
«Certo. Mia moglie Enrica è napoletana doc, così le mie due figlie, Giulia e Ludovica, nate a Napoli. La nostra è una gran bella storia. Sono arrivato a Napoli nel 2000: ho preso in affitto un appartamento del centro. E ho trattato con la famiglia di mia moglie: ci siamo conosciuti discutendo di contratto di affitto. Abbiamo bruciato le tappe: dopo qualche tempo è nata Giulia».
Che Italia ha scoperto girando da Nord a Sud per sedici anni?
«Ho scoperto l’Italia migliore, la più affascinante, ma anche la più contraddittoria. Io sono pugliese, di Cerignola, adoro il sole e il Sud, noto tante potenzialità nelle mie regioni, parlo di turismo, di economia, non solo di calcio, ma restano inespresse. E questo risultato mi ferisce a morte. Al Nord è proprio il contrario: fanno luccicare tutto quello che hanno a disposizione».
A chi darebbe l’oscar della città più bella?
«A Torino. Ho vissuto dal ’96 al ’99, ai tempi della Juventus, in una città. Sono tornato nel 2008, per vestire la maglia del Toro, e ne ho trovata un’altra. Completamente trasformata e ridisegnata dalle Olimpiadi invernali. Abitavo in centro, e spesso incrociavo gente che mi parlava in dialetto: “Ueh, Nico’”. Torino è la più grande città meridionale del Nord Italia».
Passiamo al calcio: a quale società darebbe l’oscar?
«La numero uno, per organizzazione, storia e appeal, è la Juventus. E lo dice uno che ha avuto polemiche feroci con i dirigenti dell’epoca, in particolare con Moggi».
A proposito, com’è finita la vertenza?
«In verità sono ancora in causa con il figlio, Alessandro, che all’epoca era il mio procuratore».
Che differenza c’è tra club del Nord e quelli del Sud?
«Le stesse che si incontrano nelle piazze, negli uffici, nei negozi. Con qualche eccezione che conferma la regola. Prendete per esempio la Reggina: uno pensa a Reggio Calabria e invece laggiù il presidente Foti ha compiuto un piccolo miracolo. Perciò mi sono fermato tre anni».
Altre differenze da segnalare?
«Nel rapporto tifosi-squadra. Al Sud c’è un legame molto forte, un cordone ombelicale che vive anche durante la settimana».
Andiamo agli allenatori: ne ha conosciuto millanta. Ma chi è il numero uno?
«Marcello Lippi. L’ho avuto alla Juventus e lui mi ha fatto esordire in Champions league, che per un calciatore, è il massimo. Lippi ha dimostrato anche in Nazionale di essere il numero uno».
Fine della lista?
«No. Subito dopo c’è Walter Mazzarri. Io l’ho avuto alla Reggina. Con lui abbiamo realizzato una grande impresa salvandoci nell’anno della penalizzazione. La sua abilità indiscutibile è la seguente: è bravissimo nel trovare il difetto dell’avversario e gioca tutta la partita su quello».
Fine delle citazioni?
«Inserirei anche Bellotto: l’ho avuto in B all’Andria. E continuiamo ancora a sentirci, segno di affetto e stima».
I tre più grandi calciatori con cui ha giocato?
«Zidane il numero uno. Arrivò a Torino, nessuno di noi lo conosceva bene, fece il primo allenamento e alla fine andammo tutti da Lippi a chiedergli: ma questo dove lo avete preso? Sembrava sbarcato da un altro pianeta».
Al secondo posto?
«Gullit. Lo incrociai nella Sampdoria. Lui praticava un altro sport: nessuno di noi era in grado di reggere il passo con lui sul piano della corsa e del fisico, quando partiva e metteva il turbo. Un mostro dal punto di vista fisico».
Terzo classificato?
«Roberto Mancini. Classe in quantità industriale».
Da quello che si capisce, caro Amoruso, il suo cruccio è stato la Nazionale...
«Verissimo. C’è stato un momento, quando ero alla Juve, che stavo per essere convocato. Poi mi capitò l’infortunio al ginocchio e saltò tutto. Uno con 100 e passa gol in A qualcosina meritava, credo io».
Può segnalare qualche giovanotto per il futuro?
«Tenete d’occhio Paloschi: ha lo stesso fiuto di Inzaghi ed è più dotato. Aggiungo Biabiany: appena diventa più freddo davanti alla porta, fa il botto».


Razzismo: esiste?
«Io ho giocato con Mariga, Biabiany: mai sentito. Se riguarda solo Balotelli, non è razzismo».
Come l’hanno accolta a Bergamo?
«Bene, anzi benissimo. Ma devo fare qualche gol per salvare l’Atalanta: qui sono arrivato perché amo mettermi in discussione».

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