UN’OPERAZIONE CONTRO NATURA

La casa di riposo di Udine «La Quiete» (nome quanto mai sinistro, in un caso del genere) ha spiegato per quale motivo può soddisfare la richiesta di Peppino Englaro di sospendere l’alimentazione a sua figlia Eluana, e di accompagnarla quindi verso la morte. Essendo non una clinica ma, appunto, una casa di riposo, non ha nulla a che fare con il servizio sanitario nazionale, e pertanto può infischiarsene della direttiva del ministro Sacconi. Si potrebbe dunque dire che la vicenda sembra avviarsi verso una classica soluzione all’italiana: fatta la legge, trovato l’inganno. Si potrebbe, ma non si può per il semplice motivo che la legge non c’è. È stata infatti la magistratura a dare il via libera all’eutanasia per Eluana, travalicando il suo compito, che non è quello di far le leggi, ma di applicarle. Coloro che parlano di «diritto violato» dimenticano sempre questo punto di partenza.
Ma, al di là degli aspetti formali, colpisce la disinvoltura (chiamiamola così) con cui questa casa di riposo si offre. «La Quiete» ha nello statuto il compito, anzi la vocazione, di assistere gli anziani; di curarli se malati, di alimentarli sempre e comunque. Ora si dice disponibile ad accogliere una persona (che anziana non è) per garantirle il trattamento opposto: staccarle la sonda che la alimenta, garantirle non la sopravvivenza ma la fine. Se passa il principio che può sospendere l’alimentazione ad Eluana, chi e come potrà obiettare qualcosa quando la stessa casa di riposo dovesse decidere di lasciar morire di fame e di sete un suo ricoverato ormai moribondo? Si apre, concedetecelo, uno scenario macabro. Altro che «quiete». Anche sorvolando sul fatto non del tutto secondario che «La Quiete» è sotto inchiesta da parte della procura per maltrattamenti nei confronti di anziani ricoverati, fa un certo effetto pensare a dove e come potrebbe morire questa sfortunata ragazza, ormai donna, passata dalle cure delle suore Misericordine a una struttura che sembra avere l’unico scopo di farsi pubblicità, oppure di prendere parte a una battaglia ideologica.
Perché questo è ormai diventato il caso Eluana. Il padre ha avuto tutta la nostra comprensione fino a quando la magistratura gli ha dato ragione. Da quel giorno, stentiamo a comprenderlo. Ha dalla sua una sentenza passata in giudicato, potrebbe portare Eluana in una clinica privata, ma sembra che voglia una vittoria piena, un ok dal servizio sanitario nazionale, l’avvio di un dibattito in Parlamento, una legge. Sembra quasi che il caso non sia più umano, e cioè di compassione per una persona di cui si vuole far cessare la sofferenza (ammesso che l’avverta, la sofferenza): ma di principio. Lo diciamo soprattutto per coloro che stanno spalleggiando il padre di Eluana, facendo della sua tragedia una battaglia politica. Il presidente della Regione Piemonte, che vuole autorizzare gli ospedali pubblici a fare ciò che il ministro vieta; e probabilmente il Comune di Udine, amministrato dal centrosinistra. È infatti dal Comune che «La Quiete» dipende.
Comprendiamo i dubbi di tutti, su vicende del genere. Il confine tra la vita e la morte è labile sempre, in questo caso ancor di più.

Ma, come ha scritto Giuliano Ferrara, tra le cure amorevoli di suore che non hanno alcun tornaconto nel fare ciò che fanno e la battaglia politica di chi rivendica la morte come un diritto, non abbiamo difficoltà a scegliere.

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